Tra le diverse forme di tumore al seno, il cosiddetto «triplo negativo» rappresenta una delle più aggressive e difficili da curare. Colpisce circa 8.000 donne ogni anno in Italia, soprattutto sotto i 50 anni d’età, e secondo i dati dell’Associazione italiana registri tumori (AIRTUM) si riscontra nel 15 per cento circa di tutti i casi di tumore al seno.

Il tumore al seno triplo negativo deve il suo nome al fatto che la maggior parte delle sue cellule non esprimono 3 proteine presenti in altri tipi di neoplasie della mammella: in questo tumore non si trovano i recettori degli estrogeni, i recettori del progesterone e il fattore di crescita epiteliale HER-2.

Tra i trattamenti più comuni per il tumore al seno ci sono terapie mirate che usano proprio quelle proteine come bersagli, per cui fino a pochi anni fa le opzioni di trattamento per il tumore al seno triplo negativo erano limitate alla sola chemioterapia.

Oggi nuove terapie stanno permettendo di prolungare la sopravvivenza e di dare una speranza a questi pazienti anche nelle forme più avanzate. L’immunoterapia in combinazione con la chemioterapia, in particolare, sta in qualche modo rivoluzionando l’approccio terapeutico.

Il nuovo obiettivo di Ricerca è adesso l’individuazione di idonei biomarcatori che permettano di identificare quelle pazienti con una maggiore probabilità di risposta all’immunoterapia. L’oncologa e ricercatrice Alessandra Gennari, dell’Università degli Studi del Piemonte Orientale Amnedeo Avogadro di Novara, sta portando avanti con AIRC, un progetto di ricerca proprio sui fattori predittivi di risposta all’immunoterapia nel tumore al seno triplo negativo.

«Le terapie funzionano, ma non tutte le pazienti rispondono. Dobbiamo pertanto capire se ci sono dei biomarcatori che predicono la risposta a queste terapie, affinché si possano usare altre strategie nelle pazienti che non risponderanno», spiega la ricercatrice. «C’è anche un farmaco molto interessante, già utilizzato nella pratica clinica e sul quale abbiamo dei dati positivi anche per un suo impiego più precoce nel trattamento di queste pazienti: è il Sacituzumab govitecan, che da solo o insieme all’immunoterapia permette di migliorare ulteriormente la sopravvivenza».

Può farci un esempio concreto di potenziali biomarcatori?
«Un potenziale biomarcatore è sicuramente la proteina PD-L1, che permette di identificare i pazienti in cui usare l’immunoterapia. Si utilizza già nella pratica clinica con risultati positivi: la loro sopravvivenza è stata allungata anche grazie all’introduzione dell’immunoterapia nel trattamento».

Su cosa sta concentrando adesso la sua Ricerca?
«Stiamo portando avanti un progetto finanziato da AIRC, durato 5 anni, dove con il mio team ci siamo riproposti di identificare dei marcatori biologici capaci di idetificare le pazienti che rispondono positivamente al trattamento con l’immunoterapia nel tumore della mammella triplo negativo. Nello specifico, siamo andati a studiare alcuni biomarcatori che comprendono i i linfociti circolanti, così come anche le microvescicole, e altri fattori che sono più correlati alla paziente misurabili su prelievo ematico e altri invece che si misurano sul tessuto tumorale. Il progetto sta giungendo alla sua conclusione, ma continua ancora l’arruolamento delle pazienti. I dati saranno resi noti prossimamente».