
È sera, arriva un messaggio. “Ti piace l’East Coast?”. Luca Guadagnino scrive a Stefano Baisi, production designer che ha già lavorato con lui sul film Queer. “Da lì abbiamo iniziato la conversazione” racconta in videocollegamento da Milano l’architetto, oggi convertito al cinema. “Mi ha mandato la sceneggiatura di After the Hunt e siamo partiti. Insieme al direttore della fotografia Malik Hassan Sayeed, ho fatto un primo viaggio a New Haven per studiare i luoghi e la topografia, gli stili architettonici e l’atmosfera di Yale, dove il film è ambientato”.

Prodotto da Imagine Entertainment e Frenesy Film Company e distribuito da Eagle nelle sale italiane, il film è un thriller psicologico su una professoressa universitaria (Julia Roberts) che si ritrova a un bivio personale e professionale quando una studentessa modello (Ayo Edebiri) muove un’accusa contro uno dei suoi colleghi, e rischia di mettere a nudo un oscuro segreto del suo passato. Nel cast, anche Andrew Garfield, Michael Stuhlbarg, Chloë Sevigny.
Fin dall’inizio, compreso il font del titolo, c’è un forte richiamo alla cinematografia di Woody Allen.
«Ci sono molti riferimenti, l’intento era realizzare una lunga ricerca degli ambienti dell’élite borghese americana, l’East Coast, ad esempio, e poi c’è tutto un universo che gravita attorno a quel tipo di società, nello specifico nell’Upper West Side ed East Side di New York. Nonostante comunque fosse ambientato nel campus universitario di New Haven dell’università di Yale, location dall’architettura gotica meticolosamente ricostruita negli studios di Shepperton, a Londra, che ha compreso la Biblioteca Beinecke e il The Quad proprio come apparivano nel 2019. Alcune scene sono state girate a Cambridge, per replicare lo stile architettonico del XIX secolo».

Quando hai iniziato a lavorare al film After the Hunt?
«Inizialmente si pensava di dover girare tutto in location, poi per varie ragioni il film è stato girato anche a Londra. Quella è stata la vera sfida. La preparazione ufficiale del film è iniziata a inizio maggio 2024, quando sono andato a New Haven, ho compreso gli spazi, ho iniziato un dialogo con Luca in merito a quello che avremmo dovuto mettere in scena. Nella prima stesura della sceneggiatura l’appartamento di Frederick e Alma era descritto come una brownstone house, case tradizionali che si sviluppano in verticale. Luca ha pensato che per rappresentare quel tipo di società, nonostante a New Haven non ci siano grandi esempi di quel tipo di edificio, sarebbe stato più efficace lavorare sull’orizzontalità, quindi connettere tanti spazi insieme, dare profondità di campo».

Se alcune scene sono girate in esterna, molte sono girate internamente, in abitazioni private, creando un costante dialogo fra pubblico e privato.
«Nella casa di Alma e Frederick ci sono diverse stanze in successione, ambienti che in qualche modo creano anche un’estensione della psiche dei personaggi, quindi luoghi privati, nascosti. Abbiamo iniziato a lavorare in questa direzione. L’appartamento segreto di Alma nel quartiere waterfront di Long Wharf è diventato una location chiave per una delle scene più esplosive del film. In contrasto con la sua casa lussuosa e raffinata che condivide con Frederik, l’appartamento è uno spazio essenziale, dove lei può riflettere».

Quali le ispirazioni e le ricerche per studiare le abitazioni di New Haven?
«Oltre a Manhattan ci siamo ispirati anche Rosemary’s Baby o alla filmografia di Mike Nichols. Abbiamo studiato tutti questi esempi e siamo arrivati a individuare due edifici che rappresentavano meglio questa caratteristica, questa estensione, questa magnificenza: Langham Building e il Dakota Building, due esempi architettonici di Beaux-Arts la cui geografia interna ci interessava maggiormente».

Ambienti che avete creato ex novo, altri ricostruito fedelmente.
«Oltre all’università, abbiamo ricostruito diversi punti di riferimento di New Haven, tra cui il bar Three Sheets e il ristorante indiano preferito di Hank, il Tandoor. Three Sheets era stato rinnovato nel 2022, quindi il dipartimento artistico ha consultato Google Earth e Instagram per riprodurne l’aspetto del 2019, comprese le piastrelle del bagno».

Nel film, lo specchio non è solo elemento d’arredo, ma racconta mille sfaccettature e complessità dei personaggi. Cosa rappresenta?
«Lo specchio è un elemento ricorrente nei film di Luca Guadagnino. Basti pensare alla sala degli specchi di Suspiria. In questo film, ci sono diverse scene in cui aiutano ad approfondire la molteplicità del carattere dei personaggi».

I pezzi di design, che compaiono in stanze e scene, raccontano molto la storia del film che ha al centro il tema della verità, ma anche del potere nella contemporaneità. In che modo?
«L’approccio è stato quello di cercare di dare profondità ai personaggi e quindi di creare livelli di storia all’interno dell’appartamento. Ci sono tre generazioni diverse, partendo dai nonni di Frederick, che ipoteticamente sono scappati dall’Europa dove stava insorgendo il nazi-fascismo, sono arrivati negli Stati Uniti, hanno portato con loro le influenze della Wiener Werkstatte e del Bauhaus e quindi probabilmente erano collezionisti di questi pezzi di design. Ci sono le produzioni di una panca e di sedute di Hoffman, abbiamo costruito un tavolo partendo da un esemplare che abbiamo visto a Vienna.
Il secondo livello racconta l’era kennedyana, quindi abbiamo aggiunto un trend dell’epoca, tutto ciò che è stato ispirato dagli interni delle case di Jacqueline Kennedy e sua sorella Lee Radziwill.
Il terzo livello è quello di Frederick e Alma insieme, quindi i loro viaggi, i pezzi d’arte che hanno collezionato in giro per il mondo, opere haitiane e pezzi d’arte dal Nord Africa. C’è stata la volontà di creare un ambiente che rappresentasse sia la storia dei personaggi, sia la società. Una sorta di definizione del potere e messa in scena del potere».

C’è una frase che uno dei personaggi dice nel film ‘Ciò che è bello, è bello”. Nei film di Guadagnino, l’estetica, anche filosoficamente parlando, quanto è importante per il senso della storia?
«Classe, eleganza e gusto sono sempre di estrema importanza nei film di Luca. Arriva a conoscere i suoi personaggi così bene da sapere su quale tipo di sedia siedono, quale libro hanno sul comodino, fino a cosa indossano e come si pettinano».

Da architetto che lavora su progetti di interior, sei passato al mondo del cinema. Quando è nata la tua collaborazione con Luca Guadagnino?
«Ho sempre avuto una tendenza al cinema in modo molto inconsapevole. Non sono un cinefilo ma un appassionato da sempre. Arrivavo da uno studio milanese più grande e quindi probabilmente la scelta di andare a lavorare con Guadagnino, in primis per il film Queer, è stata una mia curiosità, una voglia di vicinanza a questo universo. Ci siamo conosciuti tramite un caro amico, architetto e fotografo, che lavorava con lui sulla prima commissione nell’ambito architettura, una villa sul Lago di Como. Ci siamo incontrati a Crema, poi con lui ho seguito il negozio di Aesop a Roma, un appartamento privato a Milano e contemporaneamente un negozio di Aesop a Londra. Poi c’è stato il Salone del Mobile e la ristrutturazione della sua villa privata nel Monferrato. In questo periodo abbiamo approfondito le nostre conoscenze, ci siamo conosciuti come professionisti, ma anche come persone».

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