di
Elvira Serra
Il giornalista, direttore del Tempo: «L’intervista d’esordio? Con Busi. La fedeltà in amore al giorno d’oggi non ha più senso»
Tommaso Cerno, ha sempre voluto fare il giornalista?
«Sì. A 4 anni prendevo le cassette di legno della frutta le mettevo in giardino e facevo il telegiornale là dietro».
I passi successivi?
«Ho fondato un giornale alle medie e due al liceo. Uno si chiamava Preludio, ma entrai in rotta i professori. Allora fondai Qualif».
La sua prima intervista?
«Ad Aldo Busi, a 14 anni. Andai a intervistarlo a Sirmione. Protestava perché lì le mutande costavano troppo care. Già al liceo facevo l’inviato…».
Il primo articolo su una testata extrascolastica?
«Al Gazzettino, nel 1992, grazie al cellulare».
Ne aveva già uno?
«Uno dei primi. Costavano un casino e io ero povero, ma me l’ero fatto regalare per il compleanno con una colletta. Riuscii a pagare soltanto un mese di abbonamento».
Non capisco cosa c’entri.
«Quando ci fu l’occupazione del liceo scientifico Marinelli, lo stesso frequentato da Rubbia, per la guerra di turno come fanno oggi per Gaza, mi chiamarono dal Gazzettino, dove mi ero presentato senza successo tempo prima, e mi chiesero un pezzo dall’interno. Così feci il mio primo servizio da inviato di guerra nella Pantera del mio liceo».
Tommaso Cerno, 50 anni, gesticola come un direttore d’orchestra, dopo quasi un’ora di ritardo, mentre si racconta nella redazione del Tempo, che dirige dal 1° marzo 2024. Già direttore del Messaggero Veneto, dell’Espresso, dell’Identità, e condirettore di Repubblica (con una pausa da parlamentare del Pd-Gruppo Misto-Pd), coabita con la Zia Mara a Domenica in, occupandosi «da italiano medio dell’Italia di tutti i giorni». Non difetta di autostima: «Il mio Inferno. La Commedia del potere, illustrato da Makkox, forse è l’unico testo scritto da un italiano dopo Dante che rivaleggi con l’originale».
La sua fortuna giornalistica fu il caso Englaro.
«Lo seguivo per il Messaggero Veneto. Poi moderai una conferenza con Beppino Englaro e rimasi affascinato dalla sua storia. Ancora non aveva deciso di portare Eluana a Udine, ma era chiaro che le regioni rosse non l’avrebbero accolta. Gli presentai l’avvocato Giuseppe Campeis e cominciò il percorso che la portò in Friuli Venezia Giulia».
Ezio Mauro la notò e si accorsero di lei anche all’Espresso.
«Una cartomante mi disse che la mia vita sarebbe cambiata grazie a due donne: impossibile, per un frocio come me. E invece una era Eluana».
E l’altra?
«Daniela Hamaui, la direttrice dell’Espresso. Mi convocò e chiese: “Nella battaglia per Eluana Englaro hai preso una parte. Secondo te hai fatto bene il giornalista o no?”. Le risposi che su di lei avevano parlato tutti e che io avevo scelto di dare voce all’unica che non l’aveva da 17 anni. Mi assunse, neanche sapevo che fosse un colloquio di lavoro».
All’Espresso è stato più bravo come direttore o come giornalista d’inchiesta?
«Come direttore. Io sono un medio giornalista d’inchiesta. C’erano altri più bravi: Gatti, Fittipaldi, Abbate».
Non si butti giù. La sua inchiesta «Speak Furlan», sull’uso del denaro pubblico per la tutela del friulano, le procurò intimidazioni pesanti.
«Non è la mia più bella. Considero la più importante quella su Equitalia, nata per fare in modo che i cittadini italiani pagassero di più le tasse, ma diventata uno strumento per generare la rivolta sociale: avrebbe salvato i veri evasori e si sarebbe accanita su quelli che, dichiarando tutto, sarebbero stati travolti dalla crisi economica. Un tema attuale. Ma mi è riuscito meglio dirigere i giornali».
Forse a Repubblica, dove è stato per tre mesi condirettore, le è riuscito meno bene.
«Io ero direttore dell’Espresso e Mario Calabresi di Repubblica. A un certo punto tutti cominciano a parlare bene del mio giornale e male del suo. Il punto è che Repubblica era stata sconfessata da Eugenio Scalfari, che in tv alla domanda se avrebbe votato Di Maio o Berlusconi aveva indicato il secondo».
Chi le fece la proposta?
«I vertici del gruppo. All’inizio si era parlato di direzione. Poi, con la scusa di un mio articolo che non gli era piaciuto, venne ridimensionata. Io ero talmente pieno di me, che anziché rifiutare, perché il vero condirettore se lo sceglie il direttore, dissi di sì».
E se ne andò dopo tre mesi lasciando il trench appeso in ufficio, con le carte di credito e la tessera del privé di una discoteca nelle tasche. Almeno le fu recapitato, dopo?
«No. Comunque si era capito dal primo pranzo con Calabresi che non avrebbe funzionato: avevamo finto entrambi che ci sarebbe andato bene».
Lasciò Repubblica per candidarsi con Renzi alle Politiche del 2018. Da gay in parlamento affossò il Ddl Zan. Non è una contraddizione?
«No. Lo affossai perché c’era la possibilità di far passare l’unica parte essenziale, cioè quella che avrebbe aggiunto alla legge Mancino gli “LGBQ”, come li chiamano adesso. Ma invece loro hanno rifiutato la mediazione della Bernini e hanno voluto a tutti i costi aggiungere alla votazione tutta una parte più ideologica su cui un parlamento ci mette anni a legiferare».
La sua prima volta?
«A 11 anni con un prete. Non ho mai capito se volevo o non volevo. Fu sicuramente una violenza, ma a 11 anni non ne sei consapevole. Però mi piacque, quindi non so cosa pensare di quel prete».
Ha dedicato «Affa Taffa», il suo romanzo di formazione, ai suoi genitori e a Iris. Chi è?
«È il pappagallo del mio primo vero fidanzato, Giulio. Avevo 20 anni, lui figlio di ambasciatori. Vivevamo insieme a Udine e questo pappagallo parlava e soprattutto ascoltava le mie telefonate. Per cui si immagini uno come me, tendente all’adulterio, con un pappagallo spione…».
A dicembre 2022 ha sposato Stefano Balloch, consigliere regionale in Friuli Venezia Giulia. La fedeltà è un valore?
«C’è tradimento e tradimento. Ma a volte tradire salva una relazione e a volte è solo voglia di sesso, che si esaurisce come un’ubriacatura. L’obbligo alla fedeltà, che non c’è nelle unioni civili, non dovrebbe esserci nemmeno nel matrimonio religioso: era nato quando aveva senso distinguere il figlio legittimo da quello illegittimo».
È vero che l’imprenditore Bruno Tommassini le spezzò il cuore?
«Bruno Tommassini non mi mai spezzato niente se non le idee sbagliate che io per impertinenza, arroganza, narcisismo, a volte sostenevo. È la persona più importante della mia vita, insieme con suo marito, perché mi ha insegnato che esiste un amore vero, inclassificabile, imperituro, che non ha niente da chiedere. L’amor cortese esiste. Ma capisco che a una società abituata a classificare l’amore fino a trasformare le persone e quello che gli piace fare in una password del computer, sia difficile capire il rapporto che io ho con lui».
Come sono i suoi rapporti con Alessandro Sallusti?
«Ottimi. È stato mio caporedattore quando collaboravo con il Gazzettino. Perché?».
Nel 2022 uscì il suo nome, non da indagato, nell’inchiesta sulla droga che coinvolse la sorella di Ornella Muti. Si scrisse che la cocaina era stata consegnata quattro volte a casa sua. Lei scaricò su un suo ex che la smentì e Sallusti scrisse che la sua fortuna era stata di essere un senatore del Pd anziché della Lega.
«Quella inchiesta è stata un agguato, gli stessi inquirenti si scusarono. Nel palazzo dove vivevo abitavano altri parlamentari del Pd. Me li ricordo: il giorno prima che i giornali ne scrivessero, ridacchiando mi avevano chiesto come andavano le mie notti romane. Non faccio i loro nomi perché mi fanno pena».
Ha detto che il patriarcato non esiste. E allora Turetta figlio di chi è?
«Di patriarcato ce ne vorrebbe di più, perché stiamo smontando la famiglia patriarcale, che è giusto, al punto da non avere più punti di riferimento. Turetta è figlio di famiglie che non sanno più cosa fanno i loro figli. Se non lo sanno, vuol dire che non gliene ne importa».
I suoi genitori che lavoro facevano?
«Mio padre il tipografo. Sono cresciuto in mezzo all’odore dell’inchiostro e della carta. Mia madre l’assistente sociale: per lei le persone problematiche erano gli undicenni che si bucavano, non io».
Ha avuto un cancro.
«Ce l’ho ancora, anche se sono stato operato 10 anni fa. È un ospite che ti porti dietro per sempre. Me ne sono accorto per caso, accompagnando un amico dall’endocrinologo: guardando il mio collo si insospettì, il tumore era già in metastasi».
Se le offrissero di dirigere il Tg1 o un grande quotidiano, cosa sceglierebbe?
«La direzione del Tg1 mi offenderebbe, significa mettermi il bavaglio. Quanto ai quotidiani, penso che siano tutti grandi, quindi resto al Tempo, perché ci sto benissimo».
8 novembre 2025
© RIPRODUZIONE RISERVATA