di
Stefano Montefiori

Luciana Milan e l’anniversario del Bataclan: «Sarò alla Marche de l’égalité, bisogna testimoniare, i terroristi non sono riusciti a stravolgere le nostre vite»

Incontriamo la signora Luciana Milani al Café République, 10 minuti a piedi dal Bataclan dove il 13 novembre 2015 si esibiva la band americana Eagles of Death Metal. Sua figlia Valeria Solesin, che faceva la ricercatrice a Parigi, era nel pubblico. Fu tra le 90 vittime. Aveva 28 anni. 

Signora Milani, quando è arrivata a Parigi? 
«Ieri, venerdì, in aereo da Venezia». 



















































Le è capitato di tornare a Parigi, in questi 10 anni? 
«Sì, molto spesso. Per Valeria, e perché ho molti amici e amiche qui. Qui Valeria è stata felice». 

Che impressione le fa la città, in questi giorni carichi di commozione, dieci anni dopo? 
«Ho notato i tanti manifesti che ricordano il 13 novembre, con il motto della città, Fluctuat nec mergitur (è sbattuta dalle onde, ma non affonda, ndr). Mi ha fatto piacere. E mi è arrivato l’invito a partecipare alla Marche de l’égalité, che partirà da qui, da place de la République, domani alle 14». 

E lei andrà alla marcia? 
«Sì, ho deciso di andare. Queste occasioni pubbliche esistono. Tanto vale metterle a frutto, provare a testimoniare qualcosa». 

Lei che cosa si sente di trasmettere, in questi giorni? 
«Che i terroristi hanno provocato un enorme dolore ma non sono riusciti a stravolgere le nostre vite. Sono di nuovo a Parigi, come c’era Valeria». 

Come mai Valeria era venuta a studiare e poi a fare il dottorato e la ricercatrice a Parigi? 
«È una storia lunga, che comincia a sedici anni, quando al liceo ha fatto uno scambio con il Canada». 

Dove, in Canada? 
«In Québec, a Trois-Rivières, una città molto più piccola di Montréal, ma in mezzo a una natura molto bella. Lì ha imparato il francese». 

E poi? 
«Poi Valeria ha voluto studiare sociologia a Trento, ma ha preso anche un doppio diploma a Nantes, sfruttando la conoscenza della lingua. A Nantes è stata benissimo, diceva che era facile fare amicizie, parlare con i passanti. Poi è venuta a Parigi ed è stata più dura, ma alla fine si era ambientata anche qui». 

Come se la spiega questa passione per l’estero? Qualche anno fa forse la «generazione Erasmus» era più nello spirito del tempo, adesso le cose sono cambiate? Le frontiere sono tornate invalicabili? 
«Non so, credo che i giovani siano ancora inarrestabili. Valeria lo era di sicuro, per noi era una cosa naturale, normale, questo sguardo verso il mondo. Era una ragazza curiosissima, sin da bambina. Le sue parole preferite erano “Perché?” e “Non è giusto”. La voglia di capire e di conoscere, e l’incapacità di accettare le ingiustizie, magari anche della maestra verso una compagna di scuola. Ricordo di aver provato a spiegarglielo, una volta: “Se pensi che il mondo sia razionale, andrai incontro a molte delusioni”». 

Che ricordo ha di quei giorni? 
«Un incubo, ma con tanta solidarietà. Io e i miei famigliari siamo diventati all’improvviso dei personaggi pubblici. Il presidente Mattarella ha partecipato ai funerali di Valeria in San Marco a Venezia, il premier Renzi ci ha messo a disposizione l’aereo militare, il sindaco Brugnaro è stato generosissimo. Erano momenti di grande confusione, che però ci ha aiutato ad andare avanti. Una volta ho incontrato per strada una signora, a Venezia, che mi ha detto “Ma non è stato un po’ esagerato? Anche se forse non dovrei dirglielo”. In effetti, non avrebbe dovuto dirmelo». 

Com’era Parigi? 
«Una città annichilita. Dopo gli attentati di gennaio era molto diverso. Nella macchina fotografica di Valeria ho trovato le foto che lei aveva fatto durante le manifestazioni per Charlie Hebdo, una folla immensa per strada. Dopo il 13 novembre invece c’era solo lo choc. Forse avrebbero dovuto organizzare dei cortei anche allora». 

Il presidente Hollande dice che non ci furono manifestazioni perché i terroristi erano ancora in circolazione, si temevano altri attacchi. 
«Sì, lo capisco. Troppo rischioso». 

Al processo lei vide i terroristi, e le loro famiglie. 
«Un’occasione sprecata, per loro. Furono capaci di dire che li credevano in vacanza a sciare, invece che ad addestrarsi in Siria». 

Come ha passato questi anni? 
«Ho cercato di restare salda anche per responsabilità nei confronti dei famigliari, di mio marito e del mio secondo figlio Dario, che aveva 25 anni quando è successo. Prima della pensione, ho continuato a insegnare tecnologia agli adulti, soprattutto stranieri». 

È diventato più difficile? 
«In classe ho sempre avuto persone di tutte le nazionalità, tunisini, marocchini, albanesi, bengalesi, ma anche ucraini, russi… Tra i musulmani nel tempo la religione ha assunto caratteri più identitari, hanno cominciato a osservare molto di più il Ramadan, e mi è capitato che qualcuno si rifiutasse di entrare in chiesa, durante una visita artistica». 

L’Italia reagì con grande emozione alla morte di Valeria. E ai funerali, a Venezia, voi chiamaste i rappresentanti delle tre religioni monoteistiche. «Abbiamo cercato di fare in modo che quell’empatia servisse a qualcosa, che i valori e gli ideali di Valeria venissero riaffermati. Un messaggio di concordia. Mio marito Alberto parlò in San Marco, per Valeria. Rivolse un pensiero “a nostro figlio Dario che, oltre a una sorella, ha perso un riferimento, e al suo compagno Andrea, che è uno di quelli che non si arrendono”. Fu la prima e l’ultima volta». 

9 novembre 2025