di
Alice D’Este

Alessia quella sera con Valeria al Bataclan è fuggita all’arrivo del commando. Si è nascosta in un’abitazione vicina e poi ha raggiunto Andrea in ospedale: «Mi stringeva le mani e diceva: devo dirti una cosa»

Il momento in cui è cominciato tutto, quel 13 novembre, per Alessia Pallavicini, una delle due migliori amiche di Valeria Solesin, è segnato incredibilmente, da un sorriso. Lei e Vale quella sera erano andate al Bataclan insieme. Con loro c’erano il fidanzato dell’epoca di Alessia, ma anche Andrea Ravagnani, il ragazzo di Valeria. Quando il gruppo armato è entrato al Bataclan Alessia si stava allontanando dal parterre. In lontananza Valeria le sorrideva. «Fai in fretta- le ha detto salutandola con la mano – ti aspetto». «Mi ha sorriso come se avesse saputo che non ci saremmo più riviste» racconta Alessia, seduta nel giardino della memoria che si trova dietro Hotel de Ville. Sono passati dieci anni, ma il ricordo di quella notte per Alessia è ancora molto nitido. Erano lì, tutti neanche trentenni, con le loro vite semplici. Tutti insieme, con un futuro da compiere. Che per molti è finito quella sera, sotto i colpi del commando.

Cos’è accaduto?
«Mi sono spostata un momento dal concerto, volevo uscire a fumare una sigaretta ma prima sono andata in bagno. Pochi secondi dopo il mio ragazzo è entrato nel bagno delle ragazze. Era bianco come un cadavere, mi ha guardato dritto negli occhi e mi ha detto: “Abbassati, dobbiamo scappare, stanno sparando”. Io ero incredula. Non capivo cosa stesse dicendo. Non avevo mai sentito dei colpi di kalashnikov in vita mia, mi sembravano dei pugni sul muro dati da un ubriaco. Gli ho suggerito di rimanere nascosti e aspettare che tutto passasse»..



















































Lui ha acconsentito?
«No, perché mentre mi stava aspettando fuori e ha visto i feriti prima di me. Ha sentito gli spari, ha visto le persone cadere a terra. Ha capito subito la gravità di quello che stava succedendo. Io non avevo visto ancora nulla quindi non riuscivo a capire nulla ma ho sentito che la situazione era grave solo perché vedevo che era completamente terrorizzato. Poi mi ha presa per mano, ha cercato di coprirmi gli occhi e mi ha portato correndo verso l’uscita di sicurezza».

Cosa ricordi di quei momenti?
«Il ricordo più forte e doloroso di quei momenti per me è proprio il fatto di aver dovuto camminare sulle persone per scappare. In quel momento non vorresti farlo però sai che devi. È un ricordo terribile. Che mescola l’odore del sangue a quello della polvere da sparo e al rumore dei colpi fortissimo. In quei momenti mentre cammini ti chiedi se è proprio quest’azione, il tuo camminare su di loro, che li sta uccidendo. Però non riesci a fare nient’altro che quello, devi salvarti».

Dopo quanto tempo, siete riusciti a scappare?
«Siamo rimasti dentro relativamente poco, siamo fuggiti proprio nel momento dell’avvio dell’attacco. Appena fuori ho guardato a sinistra, a destra e mi son chiesta da che parte saremmo dovuti andare per salvarci. Sono stati dei momenti assurdi, perché la cosa terribile è che non lo sai, sei nel panico e non sai decidere cos’è meglio per te. Ci sono morti ovunque, ci sono persone che escono ferite e hanno bisogno di aiuto. E tu devi scappare e lasciarle lì. È contro la natura umana. Ad un certo punto per fortuna è uscita una donna che abitava lì vicino e ci ha fatto segno di raggiungerla. Noi abbiamo pensato che in una situazione del genere avere quattro mura intorno sarebbe stato comunque più sicuro. E siamo andati».

Come è stata poi per voi quella notte?
«Interminabile. La casa di quella signora era proprio accanto al Bataclan, il muro confinava con quello del teatro e quindi sentivamo i colpi che non finivano mai. Da un caricatore si passava ad un altro. Siamo rimasti dentro a lungo per paura anche dopo la fine dei colpi. Io per tutte le ore seguenti ho provato a chiamare Andrea: nessuno mi rispondeva. A quel punto ho cercato Giuliano, il nostro amico di Trento. Ero in modalità di emergenza. Per me l’unico obiettivo era ritrovare i nostri amici. Un’eterna attesa, fino a che non mi ha chiamata Andrea dicendo che lo stavano portando a Hotel dieu, l’ospedale del centro città. E siamo partiti per raggiungerlo».

Lo avete trovato?
«Sì, è lì che ho capito che Valeria era morta. Quando abbiamo trovato Andrea continuava a non volersi lavare le mani, a stringermi fortissimo e a dirmi “ti devo dire una cosa”. La notizia della sua morte, in qualche modo ha frenato ogni rumore. C’era silenzio».

Oggi dieci anni dopo cos’è cambiato?
«La cosa più difficile per me oltre ad elaborare il lutto è stato gestire il senso di colpa. È una cosa strana quando succede. Sei uno dei sopravvissuti ad una strage. E ti chiedi tutto il tempo perché. A tratti senti di non meritartelo. Ti senti in colpa con le persone alle quali volevi bene. Ma poi capisci che è questo che devi accettare, prima di tutto, per poter continuare ad avere un futuro».


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9 novembre 2025 ( modifica il 9 novembre 2025 | 08:36)