di
Francesco Battistini
La relatrice speciale Onu sui diritti dei palestinesi: su Gaza si è risvegliata una coscienza tra i giovani
«Antisemita». «Amica di Hamas». Da quattro mesi, Francesca Albanese vive sotto sanzioni, con accuse pesanti. Americani e israeliani non le perdonano i rapporti che ha pubblicato come Relatrice speciale Onu sui diritti dei palestinesi: «Sono la prima funzionaria nella storia delle Nazioni Unite a subire un simile trattamento, che condivido con Putin, Khamenei e Maduro. E che mi viene riservato perché collaboro con la Corte penale internazionale. La verità è che ho denunciato le violazioni dei diritti umani compiute da Israele». Quei rapporti sulle carceri, sui bambini, sul «genocidio» e soprattutto («Le parole che mi hanno creato più problemi») sui soldi che ci girano intorno, li ha raccolti nel libro Inside. Dentro la violenza di Israele (Fuori Scena), scritto per «rimettere al centro della discussione il mio lavoro. Non importa che non mi sopportino per il colore dei capelli o per i miei occhiali. Ho sviluppato una corazza d’impermeabilità. Ma la character assassination non può sovrastare i miei contenuti».
Il punto è che lei non si limita a denunciare la violenza d’Israele: gli imputa il genocidio e l’apartheid. Ma voi dell’Onu non dovreste favorire il dialogo?
«Il problema è proprio la scelta delle parole che si usano. Dopo tre anni in Palestina, sono andata via nauseata. Non riuscivo più a vivere in quel posto. Ed è l’apartheid a spiegare oggi, dal punto di vista giuridico, quel mio sentimento d’allora: c’è un sistema strutturale di dominio da parte di un gruppo su un altro. E si sviluppa attraverso la commissione di atti disumani. Lo stesso vale per il genocidio. Non c’è tregua che possa interromperlo. Perché distruggere le case, le università, gli archivi, l’identità? Ha ragione Raz Segal, lo storico israeliano: questo è un caso di scuola di genocidio. E il problema non è usare parole “compromesse”. Il problema è di chi non guarda la realtà».
La criticano anche perché non è imparziale: suo marito ha fatto il consigliere dell’Autorità palestinese.
«No, lui ha lavorato sei mesi per l’Onu in Palestina. Prestava una consulenza tecnica. E l’Onu fa questo: se va in Congo, aiuta le autorità congolesi. Qual è il problema? Io stesso ho lavorato a stretto contatto con l’Anp».
E poi è stata criticata per l’insofferenza verso Liliana Segre, per le parole al sindaco di Reggio Emilia… C’è qualcosa che non rifarebbe?
«Reggio Emilia, sicuramente. Io capisco che la gente dica: perché l’Albanese ha avuto quella reazione? Non han sentito le due ore di conversazione precedente. Ma quando ho rivisto quel mio commento, me lo son detta: no, non è proprio da me».
Perché dice che il dibattito in Italia è «squallido»?
«All’estero c’è meno ignoranza, si legge di più. In Italia è clamoroso quanto i media lascino parlare persone che non hanno nessuna competenza. Al contraddittorio, si dovrebbe prediligere il dibattito: devono confrontarsi persone con idee diversissime, ma con una base di conoscenze. In Italia ci sono persone preparatissime, ma il dibattito pubblico è molto poco informato. I giovani, no, ma chi ha la mia età continua a nutrirsi di tv. E la tv italiana non è un posto dove si fa informazione. C’è un problema di sionismo».
Sionismo non è una parolaccia…
«Mai detto questo. Però è un’ideologia, non una religione. E prevede che Israele ci debba essere come Stato per i soli ebrei. Era già molto problematico 77 anni fa, adesso è una follia. Ma su questo, i media spingono e le comunità ebraiche diventano vieppiù verbalmente aggressive: si rendono conto che possono essere citate per diffamazione, quando mi dicono che io sono la guardia del corpo di Hamas? Potrei anche parlare con Hamas, perché è il mio ruolo, ma non lo faccio: solo una volta, ho inviato una lettera chiedendo di sospendere una pena di morte. Se ci fosse un’ombra di verità in queste accuse, secondo lei continuerei a fare quel che faccio?».
Nei suoi rapporti, però, la parola «genocidio» torna 233 volte. Mentre Hamas è definita terrorista solo 16 volte. E quasi sempre fra virgolette. Gli stupri del 7 ottobre, poi: perché negarli?
«Parlare di Hamas avrebbe alterato la condotta delle operazioni militari di Israele? Non c’è dubbio che ci sia stato un attacco terroristico violento, da condannare. Però Israele cosa cavolo fa da 60 anni, nel territorio palestinese occupato? Dopo il 7 ottobre, un ricercatore palestinese mi disse: l’atteggiamento di voi occidentali è che vi rifiutate proprio di capire che cos’è stato fatto al corpo collettivo della Palestina. Immagini una donna rinchiusa e stuprata per decenni, che un giorno prende il pugnale e massacra il suo carceriere e la famiglia del suo carceriere. Ecco, il mio libro comincia con una frase di Brecht: “Tutti vedono la violenza del fiume in piena, nessuno vede la violenza degli argini che lo costringono”. Nessuno difende i crimini di Hamas. Ma Israele mantiene un’operazione coloniale finalizzata alla presa delle terre con la cacciata dei palestinesi. È così da sempre».
Ma come fa a minimizzare l’asfissiante presenza di Hamas a Gaza?
«Mai detto. Non difendo Hamas, come non difendo l’Anp. Hamas ha regnato a Gaza col pugno di ferro. Io stessa l’ho visto. C’è stato anche un movimento di giovani per disfarsene, nei primi anni 2000, quando c’era ancora Vittorio Arrigoni. Perché le prime vittime di Hamas sono sempre state i palestinesi. Ma in Italia si deve dire che sono dei barbari, dei selvaggi, hanno stuprato, hanno violentato, hanno bruciato bambini, ed è colpa loro se Israele si è ‘difeso’. Io questo non lo dirò mai. Sono stati commessi crimini efferati contro civili israeliani. Però c’è stata anche una tendenza a ingigantire l’orrore di questi crimini».
Ha detto che la sua vita è stravolta.
«La pressione è molto forte. Dopo il primo rapporto sul genocidio, m’accusavano di meretricio. Nel 2024, sono cominciate le minacce di morte, lettere in cui dicevano “sappiamo dove vivi”, minacce di stupro verso mia figlia: “Le faremo quel che han fatto alle donne israeliane”. Abbastanza brutale. Lì, è partita l’esigenza d’avere protezione dove vivo, in Tunisia».
Ora le hanno congelato i beni.
«Negli Usa ho chiuso il conto, ma nell’appartamento dov’è nata mia figlia, né io né mio marito possiamo tornarci, nonostante lui lavori per la Banca Mondiale che ha sede a Washington: c’è anche una persecuzione, affinché sia licenziato. E pene pecuniarie fino a un miliardo, o l’arresto fino a 20 anni, per chiunque mi aiuti. Non posso fare pagamenti, né riceverne. In nessun angolo del mondo, nemmeno se aprissi un conto in Cina. Se qualcuno mette il mio nome nella causale di qualunque operazione, si blocca tutto».
L’Onu è stata solidale?
«Dipende. I relatori indipendenti hanno preso a cuore, sanno che questo è un precedente che può riguardare tutti. Una serie di Stati ha fatto rimostranze. L’Onu ha sollevato la questione con gli Usa: io ho l’immunità di qualsiasi funzionario. Però le sanzioni sono ancora lì».
Ha scritto che l’inizio del suo mandato è stato di solitudine.
«Il primo anno era difficilissimo parlare di Palestina. La prima volta, partecipai a una trasmissione della Gruber e dissi dei 460 palestinesi morti in 16 mesi, d’illegalità dei coloni, del perché l’Autorità palestinese non intervenisse a proteggere i palestinesi. Non se ne parlava, in Italia. Mi guardavano come un’extraterrestre, in un vuoto siderale. Mi sono sentita sola. Anche quando mi sono confrontata con le mie paure: io e mio marito abbiamo scelto questa vita, ma i nostri figli no».
Ora che sparano meno, Gaza tornerà nel cono d’ombra?
«L’enormità di ciò che è successo è tale, che non si può tornare indietro. S’è svegliata una coscienza, soprattutto fra i giovani. Mi occupo di Palestina da 15 anni e mai ho visto questo livello di maturità: sul genocidio in Ruanda o in Bosnia, non ci fu la stessa presa di coscienza. Il fatto che uno come Mamdani vinca a New York, peraltro coi voti ebraici, è un segno di cambiamento. Però dipende. I governi potrebbero continuare a far finta di niente. Parlano di pace, ma dall’inizio della cosiddetta tregua sono morti 250 palestinesi. E continua lo sfollamento dalla Cisgiordania, coi coloni che attendono di riprendersi Gaza».
Sono 30 anni dall’assassinio di Rabin. C’è almeno un leader israeliano che stima?
«Sa che non ci ho mai pensato? Nell’archivio della Fondazione Nelson Mandela ho trovato una lettera di Mandela scritta negli anni di Oslo, secondo me proprio sui palestinesi: è triste vedere come la storia tenda delle trappole anche ai giusti, che possono dimenticare ciò che sono stati chiamati a fare. Rabin è stato feroce nei confronti dei palestinesi e poi ha capito, come tanti sionisti, che non si può vivere opprimendo il prossimo. So che tanti israeliani sionisti vogliono la fine dell’occupazione e dell’apartheid. Il problema del sionista è che per lui il problema è, al massimo, l’occupazione del ’67 e com’è degenerata. Per un antisionista, il problema è l’esistenza d’Israele come Stato di apartheid all’interno di un Paese che si chiamava Palestina ed è stato smembrato. E senza che ci sia stata alcuna forma di giustizia. Immaginarsi un futuro senza apartheid, non significa immaginarsi un futuro senza Israele».
Che cosa pensa del boicottaggio d’Israele nelle università?
«Fino al 2024 sono sempre stata contraria. Invece poi ho capito perché è stato fondamentale. L’università israeliana è un pilastro della narrazione ed è un motore della macchina della guerra. Ci sono le facoltà umanistiche, tranne eccezioni, che praticano apartheid: una cancellazione dell’identità e della storia palestinese e dell’ingiustizia che ha vissuto il popolo palestinese, nessun conto col passato. Le facoltà scientifiche invece sono lo spazio civile del sistema militare: perfezionano le tecnologie. Che cosa hanno detto durante il genocidio? Non una parola, per l’università di Gaza completamente distrutta».
Il mondo accademico italiano ha attaccato anche lei per il titolo di studio. E l’ambasciatore israeliano ha rilanciato: l’Albanese si fa passare per avvocato…
«Non è un crimine, non essere avvocato. Ho fatto altro nella vita. Ho scritto libri che sono in uso in tutte le facoltà, una pubblicazione che è una pietra miliare dell’Oxford University Press. Però mi devono chiamare non-avvocato. In Italia c’è una fragilità patologica dell’ego maschile. È un Paese maschilista tendenzialmente misogino. È chiaro che una figura come la mia sia un po’ di dissesto. Ma non è un problema mio».
Non è che si prepara a entrare in politica?
«Se avessi voluto accettare una candidatura, l’avrei già fatto anni fa: non è stato mica un solo partito, a chiedermelo. Ho detto di no perché volevo continuare a fare, gratuitamente, questo lavoro che mi porta tutto questo odio».
Ci sarà almeno un leader in Europa che la convince?
«La presidente slovena, Nataša Pirc Musar. La prima a parlare di genocidio. In Italia, la sinistra non-Pd. Perché il Pd ha elementi pro-genocidio, pro-Israele, pro-apartheid. Interessi economico-finanziari che non rendono alcune persone libere, nel loro mandato parlamentare».
E Papa Leone, che ha appena ricevuto Abu Mazen?
«Papa Francesco aveva fatto tantissimo. Era un umanista a 360 gradi e nonostante la malattia e le pressioni, che nella Chiesa ci sono, aveva tenuto la posizione dritta verso un popolo che vive all’inferno. È cambiata la posizione col nuovo Papa? Sì. Credo sia stato un errore clamoroso ricevere Herzog, uno che ricorre negli atti della Corte di giustizia internazionale per genocidio».
Netanyahu finirà a processo?
«Lo spero. Magari anche prima del 2027, quando l’occupazione compirà 60 anni. Era una cosa impensabile, ora non più».
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10 novembre 2025 ( modifica il 10 novembre 2025 | 07:24)
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