Il formidabile nesso tra cucinare, nutrire, dare al contempo la vita e la morte, così presente nella sua opera, fa da esca al pensiero, lo provoca, gli impone di slittare via dalle tante analisi accademiche che l’hanno rinchiusa nel perimetro surrealista.

Leonora Carrington, La cucina aromatica di nonna Moorhead, olio su tela, 1975.
Nata a Lancaster, Inghilterra, il 6 aprile 1917 e morta a Città del Messico il 25 maggio 2011, Carrington comincia a dipingere da ragazzina. Tra il 1932 e il 1933, durante un lungo soggiorno fiorentino, guarda, osserva, studia, probabilmente conta e misura, si impregna di Rinascimento italiano per poi creare un ciclo stupefacente, Sisters of the Moon, sorelle della luna, una serie di piccole tavole ad acquerello, grafite e inchiostro su carta, poco più di 26 x 18 cm ciascuna. Chi volesse scoprire questo tesoro ignoto ai più, non perda la mostra a cura di Tere Arcq e Carlos Martín allestita presso Palazzo Reale a Milano (aperta fino all’11 gennaio 2026) o si procuri il sapiente catalogo Electa che la accompagna.
Già lì, in quel primo affacciarsi sull’abisso della creazione, Carrington sembra superbamente sicura di sé e di quel che ha da dire. Nel suo muoversi sul crinale sottile tra mito, cultura, folclore e inconscio non ha tentennamenti. Inutile aspettare il tormentone biopic che la vorrà per sempre impigliata (e debitrice) nella relazione complessa con Max Ernst, nell’internamento in una clinica psichiatrica spagnola durante la seconda guerra mondiale, nell’oscillazione incostante tra Nord e Sud del mondo, tra Europa/Stati Uniti e Messico.
Come non chiedersi, a margine, se si appartenga al luogo in cui si è nati o non piuttosto a quello in cui si muore.
Le sue “sorelle della luna”, che i curatori della mostra hanno voluto in bella evidenza nella prima e illuminata sala, sembrano alludere a una genealogia femminile e forse – stiracchiando un po’ attribuzioni e intenti – femminista. Come se Carrington andasse considerata un’involontaria capostipite del pensiero e della pratica politica che sfoceranno nelle mutagene Camille del Chthulucene di Donna Haraway e nel quantum queer di Karen Barad. Intuizione da prendere molto sul serio, a partire proprio dall’iconografia dei testi e dei siti che a quel pensiero e a quelle pratiche rimandano. La ‘visionarietà’ di Carrington, che è capacità di vedere e pre-vedere, di osservare al di là di ciò che appare, di guardare a occhi ben aperti sul fondo, oggi sconcerta per realismo. Le superfici piane sono le più ingannevoli, l’uomo e l’umano non sono al di sopra e al centro della scena, le compartimentazioni non si addicono al reale. Lei lo sapeva. Le scienze contemporanee e gli approdi femministi più avanzati lo hanno dimostrato.
«Sono nata cinquantatré anni fa come animale umano di sesso femminile. Questo, dissero, significava che ero una “Donna”.
Ma non ho mai capito che cosa intendessero.
Innamorati di un uomo e vedrai… Mi sono innamorata (più volte), ma non ho capito.
Dai alla luce un figlio e vedrai. Ho avuto un figlio, e di nuovo non ho capito.
Chi sono io? E sono, chi?
Sono ciò che osservo o ciò che mi osserva?
Io sono potrebbe essere un’invenzione disonesta, che in realtà designa una moltitudine. Je pense donc je suis, ma perché? Bella pretesa, Monsieur Descartes!
Se la mia identità coincide con i miei pensieri, allora potrei essere qualsiasi cosa: dal brodo di pollo a un paio di forbici, un coccodrillo, un cadavere, un leopardo o una pinta di birra.
Se invece coincide con i sentimenti, allora sono amore, odio, irritazione, noia, felicità, orgoglio, umiltà, dolore, piacere e così via.
Se sono il mio corpo, allora oscillo da feto a donna di mezza età che cambia ogni secondo.
[…] Così cerco di ridurre me stessa ai fatti. Per ora sono una femmina umana che invecchia: presto sarò anziana e poi morirò.»
Che cosa dipinge, come dipinge e come racconta ciò che dipinge un’artista che è anche scrittrice raffinata come Carrington? I fatti, senza dubbio, il ciclo vitale che prevede una lenta, complessa maturazione perché arrivi a compimento il destino individuale, che è sempre e già collettivo, non districabile da ciò che ci ha precedute e che si ramificherà in ciò che verrà dopo di noi. C’è un dipinto, in una delle sale opportunamente immerse in un’oscurità onirica di Palazzo Reale, che inscena una situazione che potremmo definire archetipica. Guardiamolo insieme.
Leonora Carrington, Gli amanti, olio su tela, 1987.
Innanzitutto la campitura e la velatura. Distribuito in strati sottili che lasciano intravedere il tono sottostante, il colore sembra dare intenzionale omogeneità a una scena estremamente composita. C’è un dentro che sconfina nel fuori, un dentro precario, poroso, instabile, una tenda nel deserto. A sinistra un cielo stellato, a destra un letto occupato da due figure – né distese, né sedute – simili a quelle del Sarcofago degli sposi conservato nel Museo etrusco di Cerveteri. Sarcofago-bara, che sigilla per sempre un patto d’amore.

Il Sarcofago degli sposi, 530-520 a.C.
Intorno agli amanti – due macchie di colore che spezzano l’uniformità terrosa del dipinto e rimandano al blu del cielo, al rosso e blu dell’uccellino che sfreccia ai piedi del letto, alla gamba umana del lupo azzoppato sulla sinistra, al viola (la tinta che risulta dall’unione del blu e del rosso) dell’indumento nuziale in primo piano – una folla di figure incappucciate avvolte in monastiche tuniche bianche e piccoli, chimerici animali che sembrano vigilare. Sospensione, attesa, benevolenza, minaccia? Quel che è certo è che la scena primaria è affollata. Il due, in amore, non è mai solo due. Si dirama, si moltiplica, si complica. Carrington lo sa, come sa che la famiglia è un luogo insicuro, in particolare per la madre e per i piccoli che spesso, nelle sue tele, spiano attoniti.

Leonora Carrington, Monito alla madre, 1973.
Ha attraversato un intero secolo, Carrington, e ha dipinto tutto il tempo, per quasi settant’anni in Messico, paese la cui cultura doveva esserle congeniale. In quella società ibrida, lacerata, composita, dalla spiritualità incandescente, imbevuta di magia e humour nero, il suo ‘surrealismo’ – come è stato detto più volte anche a proposito di Frida Kahlo, María Izquierdo, Remedios Varo – non era una scelta stilistica e narrativa, ma la forma adatta a dire la vertiginosa temporalità dell’inconscio nell’altrettanto voraginosa temporalità della storia che ti è contemporanea.
C’è un’altra grande artista che ha abitato quasi l’intero Novecento lasciandosi alle spalle l’Europa per poi dedicare la propria esistenza a fare i conti con quella spaccatura. Come Carrington, Louise Bourgeois (Parigi 2011-New York 2010) molto presto abbandona la casa paterna alle porte di Parigi e va ‘altrove’, movimento che include l’andare verso, ma anche un andare via da, un avventurarsi e un sottrarsi. Estremamente cosciente di ciò che la muove, al pari di Carrington nel lavoro artistico non intellettualizza, sperimenta. Crea, riflette e scrive. È il fare, il mettere in forma, a consentire a entrambe una stupefacente attenzione, la capacità di non distrarsi e di non lasciarsi distrarre, di osservare con sguardo acuto e curioso anche il processo dell’invecchiare, la mutazione del corpo, l’affilarsi dell’intelligenza che il tempo leviga come un sasso.
Nella mostra di Palazzo Reale c’è un breve filmato in cui Carrington, intervistata nei primi anni duemila da un vieppiù sgomento interlocutore, alternando lo spagnolo all’inglese gli parla del tempo che precede la morte, che non è la vecchiaia, ma quel frammento di vita in cui si diventa pienamente consapevoli di sé, vale a dire della propria ‘mortalità’, che è ciò che ci fa vivi in mezzo al vivente. Seduta a un tavolo nella sua casa di Città del Messico, batte con grazia la mano sul ripiano di legno e, risoluta e ironica, constata che mentre lei a breve non ci sarà più quel tavolo sarà ancora lì.
La sopravvivenza degli oggetti non coincide forse con la fantasmatica presenza dei morti? Con un passato che non è nostro e che pure persiste, tenue e spettrale, in mezzo a noi? Di questi fantasmi gentili ed evanescenti le tele di Carrington pullulano. Li vediamo venire alla luce a poco a poco per scomparire subito dopo risucchiati da una lama di luce o zittiti dalla perentorietà di una teiera viola pervinca.
E contate i piedi, nei suoi dipinti, e osservate come raramente poggino sul terreno. Le sue figure levitano, un po’ come quando nei sogni si cammina sull’acqua senza sfiorarla. Le calzature di cui lei li dota non sono fatte per camminare, ma appunto per sognare.
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In copertina, Leonora Carrington, Dando da Mangiare a un tavolo, 1959