Questo articolo è pubblicato sul numero 46 di Vanity Fair in edicola fino al 11 novembre 2025.

Daniel Day-Lewis, signore di Hollywood, dopo otto anni di assenza dal grande schermo poteva tornare a recitare solo per un buon motivo. Si chiama Anemone: una storia di guerra, legami familiari e colpe. Ed è il primo film del figlio ventisettenne Ronan. Presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma nella sezione autonoma Alice nella Città, ora al cinema dal 6 novembre. «All’inizio Anemone si concentrava sul rapporto tra due fratelli», racconta il regista, «ma pian piano il legame padre-figlio si è insinuato naturalmente nella storia». Non per motivi autobiografici, precisa Day-Lewis senior: «Non c’è mai stato alcun desiderio consapevole di esplorare il nostro legame. Non era necessario».

Il rapporto tra padre e figlio diventa centrale nel film, ma come è nato questo legame nella scrittura e nella storia?
Ronan Day-Lewis: «Il film all’inizio si concentrava sul rapporto tra i due fratelli, mentre Brian era un personaggio piuttosto marginale, che non vedevamo mai realmente. Poi, man mano che Brian e Nessa diventavano persone reali, abbiamo iniziato a dedicare loro la prima scena. È stato importante sviluppare la sua prospettiva e aggiungerla alla trama del film. Col tempo, il rapporto padre-figlio si è insinuato naturalmente nella storia. Ma non c’era nulla di esplicitamente autobiografico in questo. Ciò che mi ha permesso di entrare in sintonia con Brian era proprio questo senso di mistero, il fascino esercitato dal passato dei propri genitori: qualcosa che sentivo molto vicino, anche se, ovviamente, il nostro rapporto personale è completamente diverso. Abbiamo un ottimo rapporto».
Daniel Day-Lewis: «Non c’era alcun desiderio consapevole di esplorare il nostro rapporto personale padre-figlio. Come ha detto Ronan, eravamo concentrati sui due fratelli, ma quando la storia ha cominciato a svilupparsi, esaminando l’esperienza di Brian e quella di Ray e Jem, cresciuti in una famiglia severa e crudele dal punto di vista religioso, abbiamo cominciato ad abbracciare l’idea delle generazioni».

Che cosa si tramanda da una generazione all’altra?
Daniel: «È una domanda che ci siamo fatti spesso: cosa si tramanda? Cose positive o non così positive? La mia esperienza personale, in un certo senso, è più simile a quella di Brian. Anche se mio padre era presente, è morto quando avevo quattordici anni, quasi quindici, ed era stato, a modo suo, un po’ assente, preso dal suo egocentrismo nel lavoro. Era una generazione diversa, che non interagiva molto con noi figli. Le uniche conversazioni che ricordo davvero erano quelle in cui mi mettevo nei guai, cosa che capitava spesso. Quindi forse non in modo consapevole, ma il modo in cui Brian parla del padre assente è qualcosa che capisco bene».

Il film tocca anche il tema della guerra e del senso di colpa collettivo. Quanto era importante per voi affrontare questo aspetto?
Ronan: «Abbiamo iniziato a scriverlo anni fa, quindi gli eventi attuali non erano ancora nella nostra mente. Per me era importante che, anche se il film segue un soldato britannico, non fosse intrecciato alla prospettiva dell’oppressore. Volevo che guardasse alla guerra come un affronto alla natura e alla nostra natura. Il vento, il cielo, gli alberi come testimoni della violenza».
Daniel: «Sono cresciuto come un bambino del dopoguerra a Londra. Da piccoli giocavamo tra i proiettili, cercavamo bossoli o vecchie maschere antigas. Era eccitante, in qualche modo romantico, il nostro legame con la Seconda guerra mondiale attraverso i nostri genitori che avevano combattuto in Italia o da altre parti. Da bambino c’era un fascino per quella storia: la piccola nazione insulare contro la tirannia. I temi sembravano chiari, quasi puri. C’era un motivo per combattere. Ma crescendo, e conoscendo meglio l’Irlanda — le sei contee dell’Irlanda del Nord, i miei amici a Belfast — ho visto la complessità del conflitto. Ho amici che hanno servito nelle forze armate britanniche, e altri, nazionalisti irlandesi. Tutti giovani della classe operaia, ognuno con il proprio credo, o semplicemente un lavoro da fare. Alcuni capaci di crimini, altri di compassione».