Yorgos Lanthimos ama le provocazioni, sono al centro di uno sguardo che sfrutta sempre il paradosso e recupera l’archetipo (Faust, Frankenstein, il mito della caverna) con l’idea di misurare cinicamente la limitatezza, la stoltezza o l’ingenuità dei protagonisti, proiettandoli – come nel pur notevole Dogtooth – in situazioni-limite dove non cerca risposte nuove perché le tesi appaiono tutte già servite, pronte per essere dimostrate.

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Succede anche nei successivi Alps e Il Sacrificio del cervo sacro, in cui il regista greco paventa una serie di dilemmi etici senza mostrare però una reale curiosità per le implicazioni del racconto: gli interessa di più vedere cosa combineranno le proprie cavie, trasformando il film in un esperimento da laboratorio nel quale si fa un po’ di sociologia a tavolino; in fondo, somiglia proprio allo scienziato-demiurgo di Povere creature!, con cui condivide l’autocompiacimento e il senso di superiorità verso le sue stesse creazioni.

Poveri noi!

Con lo stesso spirito dimostrativo ma caustico degli esordi, Lanthimos esamina qui le derive del dibattito sociale, politico e culturale degli ultimi anni: mette in scena, infatti, il presunto lato oscuro dell’ideologia “woke” – perdonate il termine sgradevole, ma il film non rifugge da certi stereotipi – attraverso la figura di un’imprenditrice filantropa solo all’apparenza tale, cui l’autore contrappone due “terrapiattisti” della peggior specie, convinti di una tesi così ridicola da sciogliere subito qualsiasi ambiguità e prevenire ogni tentazione di complicità nei loro confronti, e non appena si iniziano a comprendere meglio le motivazioni personali dietro queste psicosi, è troppo tardi per riconoscersi anche solo lontanamente nel dolore di Teddy.

Insomma, Bugonia non rappresenta affatto una parabola sul “fascino del male”, al massimo pare un tentativo di ridicolizzarlo. Come tutte le caricature, però, il disegno finisce per deformare eccessivamente l’oggetto del proprio sguardo, banalizzandolo, specie quando la sceneggiatura di Will Tracy inizia ad accumulare situazioni ridondanti o si perde in una serie di dialoghi espositivi.


Il duello tra jesse plemons ed emma stone avrebbe potuto regalare qualche soddisfazione in più se i personaggi fossero stati più sfaccettati.

Poiché la storia non ne fa menzione, ho scoperto il significato di “bugonia” grazie a Wikipedia: si tratta di un’antica credenza mitologica citata pure da Virgilio, secondo cui le api possono originarsi nella carcassa di un bue morto. Il film si chiama così perché i due protagonisti maschili fanno gli apicoltori e incarnano tutte le paranoie spuntate durante la pandemia di COVID-19, con il concorso di certi populismi ma anche di un’ostilità sempre più diffusa contro il progressismo liberal americano, “colpevole” d’imporre dall’alto una cultura aliena ai valori tradizionali.

Si finisce quindi per solidarizzare con Michelle malgrado quest’ipocrita imprenditrice liberal appaia bidimensionale, finta e disumana quanto i suoi carnefici. Anziché alzare la posta in gioco sottoponendoci un vero dilemma etico, la sceneggiatura si limita però a prendere le distanze da entrambe le parti in modo beffardo e inoffensivo, nonostante il duo Emma Stone-Jesse Plemons si prodighi per ispessire un po’ i rispettivi personaggi.


emma stone prima della “trasformazione”.

Benché ambisca a fotografare uno scenario attuale, Bugonia è il remake del lungometraggio sudcoreano Save the Green Planet!, uscito nel 2003… Ben prima, cioè, che le parole “woke” e “terrapiattista” diventassero di uso comune. Infatti, la versione hollywoodiana arriva fuori tempo massimo per commentare in maniera ficcante uno scenario già travolto dal presente, in cui i complottisti appaiono un po’ meno agitati del solito e le multinazionali sembrano aver dimenticato certi buoni propositi verso i diritti dei lavoratori.

Forse il sensazionalismo di questa satira non avrebbe sorpreso nessuno nemmeno nel 2023 (quando, presumibilmente, è iniziata la lavorazione del film): figurarsi in un 2025 dove la realtà supera di gran lunga l’immaginazione.

Bugonia è disponibile al cinema.

Con un impianto “a tesi” privo di ambiguità o chiaroscuri, il registro grottesco che trasforma l’intera umanità in semplici macchiette e uno sviluppo un po’ piatto malgrado i dilemmi etici seminati nell’incipit, la sceneggiatura di Bugonia amplifica i limiti di Yorgos Lanthimos – la programmaticità delle tesi, il sensazionalismo dello sguardo, il gusto per l’accumulo – senza capitalizzarne i pregi: su tutti, la capacità di recuperare il mito per fotografare cinicamente il presente come in Dogtooth, Alps e Povere creature!, dove le conclusioni apparivano però sempre meno interessanti delle premesse. Qui, invece, il cineasta greco costruisce un’allegoria magniloquente solo per irridere fuori tempo massimo sia certe derive, sia i detrattori delle stesse, mettendo tutto sullo stesso piano; e finisce per semplificare la posta in gioco con una satira poco corrosiva, molto autocompiaciuta e fin troppo schematica.