Un’estate in cui un giovane talento del tennis si avventura nei tornei nazionali, affidato a un ex talento che ama più godersi la vita ma nasconde una malinconia infinita. Il maestro usa il tennis per raccontare di ferite da rimarginare e la sofferenza della crescita in una commedia all’italiana. La recensione di Mauro Donzelli.
Un decennio sta finendo, cosa resterà di quegli anni Ottanta? Sicuramente i telefoni grigi e i gelati d’estate al mare, quando incontriamo Felice, tredici anni di concentrazione che gli si intonano come i completi bianchi da tennis perfettamente stirati. Nonostante sia un adolescente, segue regole ferree, vergate su un quadernone con ostinata precisione dal padre, che si aspetta che diventi un campioncino, alimentando le speranze grazie a buoni successi nei tornei regionali di categoria. È uno di quei genitori che sommergono di aspettative i figli sportivi che si avvicinano al confine fra il gioco da ragazzi e la seduzione del professionismo, e della svolta economica per tutta la famiglia. “Così ripagherai tutto quello che abbiamo fatto per te”. Emuli di provincia del papà Agassi demolito nello splendido Open. Come se ci fosse bisogno di aggiungere pressione a uno sport che sembra inventato dai maestri della psicanalisi, senza simulazioni e scarico di responsabilità. Solo tu, una rete, e un avversario.
Prendendo spunto dalle sue avventure tennistiche da ragazzo, Andrea Di Stefano abbandona per una volta il genere, frequentato con abilità in passato, per farsi catturare dalla seduzione del tempo. Come altri autori di questi anni – sarà l’età che avanza o il Covid che ha spinto a guardare dallo specchietto retrovisore – prende in mano un’avventura personale ma anche molto universale. Una storia di crescita impossibile da separare da anni fatidici, specie quando coincidono con l’adolescenza, in cui la commedia viene in aiuto per raccontare il rapporto fra maestro e allievo, con un mentore che inevitabilmente dovrebbe imporre la sua giurisdizione anche al di fuori dal campo, diventando un secondo padre, o almeno dare il buon esempio con qualche lezione di vita. Del resto, il tennis si presta alle metafore esistenziali, si può attaccare senza paura o indugiare a fondo campo aspettando l’errore dell’avversario, tirare forte senza guardare o studiare l’avversario e darci dentro con la tattica. Ma cosa succede se il mentore è un cialtrone che vive di espedienti, appeso a un passato con qualche vittoria e a un talento sprecato?
È quello che ci racconta Il maestro, capace dello spassoso disincanto degli aperitivi al mare da ragazzi, a inizio stagione, ma anche delle riflessioni spaventate e mai così esistenziali, con gli amici, durante le ultime bevute a fine estate. Pierfrancesco Favino conferma, dopo L’ultima notte di Amore, la sintonia con Di Stefano e cerca di dare un sapore personale a un personaggio che ricorda i nobili cialtroni che la commedia all’italiana ci ha regalato. È inevitabile pensare a quei riferimenti, specie nella prima parte davvero spassosa in cui la chiave della commedia è prevalente e funziona a pieno regime. Basti pensare alla cura nel ritrarre un “caratterista” come il padre di Felice, un bravissimo Giovanni Ludeno.

È lui che ha costruito il campioncino in provetta come Pallettaro Maximo, a cui è vietato ogni rischio e imposta la pazienza del pallonetto da fondo campo, in attesa dell’errore altrui. Ma ecco che si arriva alle porte di quell’estate cruciale, in cui i soldi faticosamente guadagnati in famiglia per le vacanze vengono investite in un giro di tornei nazionali sotto la guida del Maestro Gatti. Ottavo di finale al Foro Italico, rimorchiata languida e bugiardo da grande slam, e quindi irresistibile, da subito, grazie allo sprezzo del ridicolo di un Favino sempre più impeccabile. La sorpresa è il ragazzino, Tiziano Menichelli, capace di rendere credibile e sempre più tenero quel rapporto bizzarro.
Un legame archetipico, quello fra i due, in cui è il più giovane il più maturo, bloccato però da una paura naturale di crescere e di rischiare, che sia in campo o con le ragazze, ma in generale nella vita. Non si azzarda a rompere le regole con quella strafottenza chiamata libertà che Gatti ritiene maestra di vita, ma che ha lasciato un vuoto enorme in un presente segnato dal suo passato, che i due inseguono insieme ai risultati sportivi ,mentre si avventurano sempre più lontano da casa e vicini alla zona più dolorosa e sensibile.
Un viaggio spazio temporale, quindi, in cui il tennis non è solo metafora, viene raccontato con credibilità da chi si nota aver vissuto infinite giornate sul campo, ma lascia inevitabilmente un po’ di polvere rossa fra i lacci delle scarpe bianche, anche quando si smette di giocare. “Non torneranno più quei pomeriggi di maggio”, come direbbe il Nanni Moretti pallanuotista, mentre le risate dell’incontro di caratteri iniziale si tramutano in momenti commoventi in cui il legame fra i due si solidifica. Rimanendo esposto, però, a inattese turbolenze dovute a un Maestro che si affaccia sempre più in bilico sul precipizio, in cui Raul perde la maschera degli occhiali da sole a goccia e dell’abbronzatura.
Un’estate che non si scorda più, con due compagni di viaggio fragili e imperfetti, raccontati con trasporto sincero da una sceneggiatura solida, ma capace di lasciare da parte le regole scritte quando vale la pena andare a rete, esponendosi anche al rischio di un passante.