Pubblichiamo in anteprima un brano dal nuovo libro di Vittorio Sgarbi Il cielo più vicino. La montagna nell’arte, in libreria da oggi (La nave di Teseo, pagine 306, euro 21,00 illustrato). Sgarbi, sulle orme di René de Chateaubriand, conduce in un viaggio attraverso la storia dell’arte per raccontare la natura e la montagna interpretata dai più grandi artisti, dal Trecento ad oggi. Dal primo pittore a raffigurarla, Giotto, il più umano di tutti, alle Dolomiti nei quadri di Mantegna, dalla purezza dei paesaggi di Masolino agli scorci aspri di Leonardo, dove le rocce incorniciano le vergini senza tempo, agli impalpabili acquerelli alpini di Dürer in viaggio da Venezia verso la Germania. A fianco dei maestri celebrati, Bellini, Giorgione, Tiziano, Turner, Friedrich – Sgarbi ricorda capolavori di artisti meno noti, cresciuti in provincia, come Ubaldo Oppi, Afro Basaldella, Tullio Garbari. Un viaggio che attraversa le Alpi e le altre vette d’Italia dipinte nel realismo di Courbet e nel simbolismo di Segantini, nei colori di Van Gogh, nell’espressionismo di Munch e nei fantasmi di Böklin.

Niente si oppone alla natura più dell’arte, per ragioni costituzionali. L’arte infatti tende a istituire un universo proprio e chiuso in se stesso, con sue interne leggi che mirano a determinare una seconda natura. Nelle sue espressioni più sublimi, l’arte punta all’annullamento della natura, a sostituirsi a essa o a riprodurla a un tal grado di perfezione da farla dimenticare. Di fronte a un paesaggio di Claude Lorrain, di Jean-Baptiste Camille Corot, di Paul Cézanne o di Giorgio Morandi non sentiamo nessuna nostalgia e nessun desiderio di conoscere i luoghi reali che li hanno ispirati. L’arte finisce in se stessa e non rimanda a nessuna realtà esterna, anche se apparentemente evocata. Così di fronte agli stessi luoghi che vediamo dipinti proviamo ben diverse emozioni. E, di più, molto spesso chi resta incantato di fronte ai fenomeni naturali e ammira in estasi tramonti infuocati non ha nessuna reazione e nessuna sensibilità per gli stessi rappresentati in un dipinto; per converso chi sente, conosce e ama con educata sottigliezza le opere d’arte può essere indifferente davanti alla natura.

Un singolare ed eccentrico drammaturgo francese, Alfred Jarry, scriveva che l’amore fisico è un atto senza importanza perché si può ripetere all’infinito. Come tutto ciò che appartiene alla natura, lo stesso può dirsi anche per il tramonto; con minime varianti – ma con le stesse emozioni dei suoi numerosi ammiratori – sappiamo che anche il più straordinario tramonto in montagna potrà ripetersi domani, poi ancora fra qualche giorno; e che per tutta la vita potremo godere di indimenticabili tramonti. Ma un’opera d’arte ha qualcosa di unico e certamente di irripetibile. Niente sarà più come una volta è stato nella mente e negli occhi di Lorrain, di Corot, di Cézanne e di Morandi. Ciò che vediamo in quei pochi centimetri quadrati di tela ha un’altra dimensione, ha una forma propria, una concentrazione di pensiero che passa attraverso tutta l’esistenza di chi l’esprime. Così di fronte a uno stesso luogo dipinto da due artisti non possiamo avere dubbi e sentiamo di vedere due luoghi diversi. Il luogo dipinto appartiene totalmente alla poetica dell’artista e il suo rapporto fenomenico con la realtà ha un’incidenza puramente esterna.

E la montagna? Il tempo della montagna è il tempo della ricerca dell’uomo che attende un segnale dal cielo. Oltre la montagna c’è il cielo più alto, il luogo del desiderio, dell’elevazione, dove la nostra mente trova i pensieri che la terra non consente. Nulla è più vicino all’eterno della montagna e allo stesso tempo niente permette di intendere meglio i limiti dell’uomo, la sua fragilità. L’uomo e la montagna hanno una storia, che l’arte ha raccontato nella sua autonomia espressiva. Un racconto che inizia con Giotto e arriva fino ai testimoni del nostro tempo. Un lungo percorso, ricco di sfumature, ma che ha una stessa sostanza, un solo pensiero. Che è il pensiero di un assoluto.

Sarà, il nostro, un viaggio libero, inseguendo i dipinti di artisti imprescindibili e di artisti che amo, alcuni molto noti, altri meno, ma non meno importanti, e che ho sempre guardato con attenzione. L’arte ha dato un volto alle emozioni che animano chiunque si avvicini alle Alpi, alle Dolomiti, al Sella, le cui vette creano effetti straordinari, sorprendenti, come fossero creazioni artistiche, ma creazioni di Dio, di un Dio che diventa artista. Quelle creste, quel ritmo jazz che accompagna la visione dei monti, tra alti e bassi, rocce spezzate e incastri di cielo azzurro e spruzzi di bianco, hanno ispirato artisti non necessariamente di paesaggio, proprio perché la montagna ispira ed evoca altro. Esse fanno da sfondo a episodi sacri o mitologici, ne determinano a volte il significato, la composizione. E spesso diventano protagoniste del dipinto, accentrando su di sé ogni significato, sacro o profano.

In questa escursione tra le montagne ho avuto accanto un compagno, silenzioso e presente, uno dei grandi scrittori del romanticismo, René de Chateaubriand. Nella Lettera sul paesaggio in pittura del 1795, ma pubblicata solo nel 1830, lo scrittore francese, in esilio in Inghilterra, rivolgendosi a un giovane artista, stabilisce con naturalezza e semplicità i principi dell’estetica romantica, gli stessi che ancora oggi guidano il nostro sguardo di fronte a certi spettacoli della natura, anche se non lo sappiamo. Chateaubriand scrive pensieri all’apparenza provocatori, ad esempio che i pittori paesaggisti non amano abbastanza la natura e la conoscono poco. Ma è davvero una provocazione?

I grandi maestri sono coloro che in qualche modo sentono che la montagna deve raccontare qualche cosa che non è quello che si vede, ma quello che si sente. La montagna, più di ogni altro paesaggio, forse solo come il mare, ci pone il problema del rapporto con il cielo, del rapporto con Dio. Ecco perché ho voluto questo titolo, Il cielo più vicino. Percorrendo le strade che salgono verso o dentro le montagne, da ragazzo in compagnia dei miei genitori o da adulto, nei miei viaggi, di giorno o di notte, ho sempre sentito che qualche cosa che sta non di qua, ma di là, oltre le nuvole, riguardava la mia anima, non i miei occhi, non il mio sguardo. Il tema della montagna reca con sé il pensiero di Dio.

Come scrive Chateaubriand: «Il pittore che rappresenta la natura umana deve occuparsi dello studio delle passioni. Se non conosce il cuore dell’uomo, conoscerà male il suo volto. Il paesaggio, come il ritratto, possiede una parte morale e una intellettuale, eppure è necessario che parli, che, attraverso l’esecuzione materiale scaturiscano fantasticherie e sentimenti da cui nascono i diversi scenari». E ancora: «Così, nell’arte che costituisce il soggetto di questo tema di paesaggio per rappresentarci il grande noi ci immaginiamo montagne alte sino al cielo, torrenti, precipizi, il mare agitato, frutti immensi che solo l’onda dei nostri pensieri rende visibili, e, ancora, venti e tuoni».

Ecco, iniziamo il viaggio.