
voto
8.0
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Come sentieri che si ricongiungono in un bosco antico, addentrandosi nella verzura per condurre a spiazzi mistici e nascosti, Bell Witch e Aerial Ruin rinsaldano la loro alleanza con un nuovo capitolo della saga Stygian Bough, distillando un suono puro e sacrale che sembra ancora una volta quello di un rito di purificazione compiuto fra i monti, i laghi e le foreste del Pacific Northwest.
Un’opera che riparte da dove le emanazioni di “Volume I”, rilasciato ormai cinque anni fa, in un mondo stretto dalla morsa della pandemia, erano sfumate fino a diventare silenzio, configurandosi come la prosecuzione più logica di quel racconto imbevuto di magia e solennità e inquadrando definitivamente la natura della collaborazione, specie in rapporto al cambiamento messo in atto da Dylan Desmond e Jesse Shreibman sotto il loro moniker ‘ufficiale’.
Se con “Mirror Reaper” (prima) e “Future’s Shadow Part 1: The Clandestine Gate” (poi) i Bell Witch hanno infatti ribadito di volersi esprimere attraverso un linguaggio radicalmente concettuale, destrutturando la forma funeral doom fino a renderla nebbia evanescente, un sussurro proveniente da una stanza lontana, quasi si trattasse della colonna sonora di una pellicola impressionista in bianco e nero, qui il duo di Seattle – contando appunto sulla voce e sulla chitarra di Erik Moggridge, unica figura dietro il progetto acoustic folk Aerial Ruin – conferma di volersi mantenere su registri più dinamici e concreti, ponendo al centro riff e costrutti ritmici per imbastire una proposta sì densa e atmosferica, ma sempre e comunque riconducibile al mondo della musica metal come siamo soliti intenderla.
Rispetto al capitolo del 2020, si segnala comunque l’acquietamento del lato più estremo della proposta, figlio della tradizione death/doom e impersonificato all’epoca dal growl viscerale di Shreibman, con le voci pulite di Desmond e Moggridge a dialogare fra loro dall’inizio alla fine della tracklist e a donare all’ascolto un clima ora estatico, ora malinconico, ma in qualche misura sempre limpido, come acqua che scorre a valle in primavera dopo lo scioglimento dei ghiacci invernali, distaccandosi dall’immaginario mortifero suggerito dall’artwork di Denis Forkas (Behemoth, Grave Miasma, Wolves in the Throne Room) per aprirsi su uno scenario dove doom cinematografico e folk cantautorale plasmano una Natura rigogliosa e meditativa.
Il quadro che emerge, fra lo Scott Kelly solista e una carrellata di spunti accostabili ai Loss o ai Mournful Congregation più armoniosi e melodici, è ancora una volta di quelli accecanti e intensissimi, con l’opener “The Waves Became the Sky” a settare uno standard di passione e personalità che le successive “King of the Wood”, “From Dominion” e “The Told and the Leadened” replicano ingrossando o assottigliando la filigrana a seconda dell’occasione, forti di una produzione – curata dal ‘guru’ Billy Anderson (Agalloch, Corpus Offal, Neurosis) – che esalta i dettagli e le sfumature preservando l’impatto complessivo e le dinamiche del songwriting.
Cattedrali soniche che si innalzano sopra le vette degli alberi, respirano e si prostrano diventando il riflesso di uno scambio reale e profondo tra gli artisti coinvolti, qui alle prese con un’ora di musica semplicemente perfetta per accompagnarsi ai colori fiammanti e alle suggestioni emotive dell’autunno.