di
Giovanna Cavalli
Faletti raccontato dalla moglie Roberta Bellesini: «Gli amici? Branduardi, De Gregori, Iacchetti. Ma dopo la malattia si isolò per non farli soffrire»
La prima volta che l’ha incrociato lo prese per un gran tamarro.
«Avevo 15 anni, con gli amici ci si trovava sui motorini davanti al bar Cocchi di Asti. Sentimmo un rombo. E una Ferrari rossa si fermò a pochi metri. Scese Giorgio Faletti, accompagnato da una modella bellissima con le gambe lunghe otto metri».
Tipo film dei Vanzina.
«Pensai: “Però, che sborone”. Lo avevo riconosciuto, perché lo guardavo a Drive In. Ma la brutta impressione svanì subito. Aveva una faccia talmente simpatica, da ragazzino. Giorgio non era proprio il tipo che si vantava, questo però l’ho scoperto dopo».
Roberta Bellesini, 53 anni, architetta, è stata compagna e poi moglie del cabarettista-attore-cantante e scrittore, scomparso il 4 luglio 2014, a 63 anni. I suoi libri, tutti ripubblicati da La Nave di Teseo, vendevano milioni di copie. Ora Roberta ha curato (con Chiara Buratti) Io dico (esce il 21 novembre per Gallucci Editore): raccolta di citazioni di Faletti, tratte da romanzi, canzoni, monologhi, alcuni inediti.
Intanto l’universo vi aveva mandato un segnale.
«Quello vero, ancora più incredibile, arrivò dopo. Quando la casa di campagna in cui da bambina vivevo con i miei nonni fu comprata proprio dai genitori di Giorgio. Lui si era fatto un appartamentino nella mansarda, quando veniva da Milano stava lì. E Asti non è poi così piccola».
Finché la sera del 2 luglio 2000 vi siete incontrati a casa di amici.
«Nella maniera più italiana possibile: davanti alla tv per la partita della nazionale — c’era Francia-Italia, finale degli Europei di calcio — e a un piatto di spaghetti al pomodoro».
Prima impressione?
«Mi colpirono i suoi occhi grigio-azzurri, limpidi, ti sembrava davvero di leggerci dentro. Chiacchierammo seduti sul divano del suo disco appena registrato, promise di mandarmi il cd, a fine serata mi accompagnò a casa. Per qualche mese non ci siamo più rivisti, solo qualche telefonata. Poi abbiamo cominciato a frequentarci».
Qualche dubbio lo aveva.
«Lui era un personaggio famoso, più grande di me di 20 anni. Mamma ne aveva uno meno di lui. Preoccupata, mi disse: “Fossi in te ci andrei con i piedi di piombo”. E così fu. Dopo qualche mese Giorgio mi chiese: “Che devo fare ancora per corteggiarti?”. In effetti si capiva che il suo interesse per me era serio, mi aveva pure portato a conoscere sua madre. Gli sfizi se li era già tolti. E ho capitolato».
Rideva con Vito Catozzo?
«Oh sì, Drive In era stata l’unica trasmissione serale che i miei mi consentivano di vedere, la domenica, perché dovevo alzarmi presto per la scuola. Ma il mio preferito, tra i personaggi di Giorgio, era Carlino di Passerano Marmorito. Insieme a Paolo Conte, Giorgio era l’orgoglio di Asti».
Era 20 anni più giovane ma pure più alta di 9 centimetri. Come la prendeva?
«Gli piaceva, aveva avuto fidanzate modelle. Solo quando portavo i tacchi, magari per una serata, mi sfotteva così: “Mamma, mi hai messo la merenda nella cartella?”».
È stato un grande amore.
«Sì, che si è costruito nel tempo. Quando sono cominciati i suoi problemi di salute, avrebbero potuto creare tensioni, paura o stanchezza, è normale che succeda, siamo umani. Invece per noi è stato un collante fortissimo».
Il primo libro.
«In quel periodo Giorgio non stava lavorando in tv, perciò aveva tanto tempo libero. Scrisse dei racconti horror, aveva il culto di Stephen King. Su consiglio di Piero Degli Antoni, li fece leggere alla Baldini+Castoldi. “Belli, ma prova con un romanzo”. Il titolo lo aveva già in testa da anni». «Io uccido». «Cominciò a disegnare la trama nella mente, senza prendere appunti. Gli dicevo: “Speriamo che non batti la testa e ti dimentichi tutto”».
Alla presentazione ufficiale, il 6 novembre 2002, non ci arrivò mai. «Anche lassù qualcuno scrive sceneggiature. L’appuntamento era per le 18 alla Mondadori di via Marghera, a Milano. Quella mattina ero uscita alle 7 per visitare un cantiere. Giorgio era solo in casa. Ebbe un ictus. Non gli lasciò nemmeno il tempo di stendersi sul letto. Quando sono rientrata, a mezzogiorno, l’ho trovato per terra. Già in coma. Dall’ultima chiamata sul cellulare, alle 10.05, ho potuto ricostruire a che ora più o meno si era sentito male».
Dettaglio fondamentale.
«Sì, perché i medici del Niguarda mi proposero un farmaco effetto “sturalavandino”. Ma andava somministrato prima possibile, altrimenti, con il coagulo indurito, si rischiava di rompere l’arteria e provocare un’emorragia cerebrale. Mi diedero pochi minuti per scegliere. Avevo la sua vita tra le mie mani».
Funzionò.
«Dopo 24 ore cominciarono a risvegliarlo. Non riusciva a parlare bene. “Spero di non diventare un ex attore”, farfugliò. Era attaccato alle macchine, che facevano il tipico bip-bip. “Dove mi avete ricoverato, a Las Vegas?”».
La proposta.
«Restò in ospedale fino a dicembre. A febbraio 2003 ebbe un altro piccolo episodio. Di nuovo ricoverato. “Basta, sposiamoci”. Scherzai: “Sei imbottito di farmaci, richiedimelo più in là, non vorrei che mi accusassero di circonvenzione di incapace”».
Ma poi.
«Tornati a casa, dopo dieci giorni trovai l’anello sul comodino. Era fine marzo. Ad agosto ci siamo sposati, all’Isola d’Elba, il suo luogo del cuore. Solo noi e qualche amico. Alla famiglia lo abbiamo detto la sera».
La cosa più bella che avete fatto insieme in 14 anni.
«Un viaggio di due mesi in Arizona, Utah e New Mexico, tra gli indiani. Giorgio si stava documentando per Fuori da un evidente destino, che resta il mio libro preferito, dei suoi».
Francesco De Gregori.
«Erano amici, c’era stima e affetto. Ricordo una sera a cena a casa di Francesco, con la moglie Chicca. Cucinò lui, era bravissimo».
Chi erano altri amici?
«Angelo Branduardi. Prima dell’uscita di un libro andavamo tutti in trattoria a Bedero Valcuvia, dove vive lui. Giorgio gli raccontava la trama, ormai era un rito. E poi Carlo Taranto, della Gialappa’s, Nino Formicola, Antonio Ricci, Enzino Iacchetti».
Li ha avuti vicini anche durante la malattia?
«No, per sua scelta. Ha preferito isolarsi, non voleva che lo vedessero così, farli soffrire, era un’anima sensibile».
Lo scoprì per caso.
«Soffriva di ernia del disco. Durante una risonanza di controllo, trovarono una metastasi: tumore al polmone».
Le cure a Los Angeles.
«Con un medico russo, Giorgio si fidava, erano terapie avanzate. Non era arrabbiato con la vita. E nemmeno triste. Nonostante tutto è stato un bel periodo. Abbiamo vissuto a Venice, Santa Monica, Hollywood, cambiavamo casa ogni mese, lì non ti fanno affitti più lunghi. Tramite Roberta Manfredi abbiamo conosciuto tanti altri italiani. Quando Giorgio stava bene, uscivamo spesso. Due nostri amici, Dori e Charles, ci presentarono Leonard Nimoy, il dottor Spock di Star Trek, per noi un vero mito».
Il ritorno ad Asti.
«Le cure non stavano più funzionando. Rientrammo finché era in grado di viaggiare. Fino all’ultimo ha lavorato su una canzone».
Una sua frase che le torna spesso in mente.
«Sono una precisina. Ogni tanto esageravo a mettere i puntini sulle “i”. Lui mi prendeva in giro: “Non è statisticamente possibile che io abbia sempre torto e tu ragione”».
C’è un momento o un luogo in cui lo sente particolarmente vicino? «Purtroppo no. Sono passati 11 anni e non l’ho mai nemmeno sognato. Però nei momenti importanti compare sempre una piuma. Come il titolo del libro pubblicato dopo la sua morte. Le conservo tutte in un cassetto. Non credo sia un caso, ma un segno. Giorgio c’è. Anche se non posso vederlo, è vicino a me».
12 novembre 2025 ( modifica il 12 novembre 2025 | 11:54)
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