Del bivacco progettato dallo studio torinese Carlo Ratti Associati, avevamo parlato nel dettaglio in questo articolo. Già allora, oltre alle peculiarità tecnologiche, si segnalava un interesse di pubblico insolito per questo genere di strutture, pure così apprezzate in tempi recenti. A destare sorpresa era soprattutto la visibilità – e quasi sempre l’apprezzamento – che tale struttura aveva avuto tra i non addetti ai lavori, in contesti anche estranei a quelli tradizionalmente associati all’alpinismo e alla montagna.

 

L’architetto Carlo Ratti, professore al Mit  (Massachusetts Institute of Technology) e al Politecnico di Milano, cofondatore dello studio omonimo e direttore della Biennale Architettura 2025 ha firmato, nella prima pagina di Repubblica (di ieri, 11 novembre), un editoriale proprio sull’argomento: Cent’anni di bivacchi, architetture essenziali per la montagna lenta. Simbolo di un modo antico di affrontare le vette, oggi possono essere un modello contro l’overtourism.

 

Cosa s’intenda per “montagna lenta” non è chiaro, ma l’attacco del pezzo non lascia spazio agli indugi. Dopo una brevissima parentesi storica – che riprenderà in seguito – Ratti dà subito fuoco alle polveri: “Mi permetto quindi di avanzare una riflessione e di lanciare una sfida. La prima: come costruire in montagna oggi? La seconda: potrebbe il nostro Paese diventare un modello globale per l’architettura alpina?”.

 

Ma stiamo ancora parlando di bivacchi o di architettura alpina “tout court”? Proviamo a capirlo leggendo oltre.

 

Insieme al Salone del Mobile di Milano, abbiamo presentato un progetto di bivacco: un piccolo spazio di emergenza che si incastona nella montagna come una roccia. L’idea: presentarlo in anteprima durante le Olimpiadi, aprirlo al pubblico durante la Settimana del Design e infine trasportarlo sulle Alpi, per farlo vivere nel lungo periodo”.

 

Si parla proprio di bivacchi; in particolare, del bivacco progettato dallo studio Ratti Associati. L’idea di esporre un bivacco al pubblico, prima della sua installazione definitiva, non è nuova. Ce lo racconta Luca Gibello, dottore di ricerca in Storia dell’architettura, nonché autore del recentissimo volume I bivacchi delle Alpi. 100 anni di emozioni in scatola.  

 

I prototipi di alcuni bivacchi venivano costruiti in città la prima volta e spesso esposti in città, in occasione delle esposizioni universali. All’epoca, parlo della fine dell’Ottocento fino agli anni Trenta-Cinquanta del Novecento, era un modo per farli vedere in città a chi non ha la fortuna di andare lassù. Così si faceva vedere come funziona, come è fatto, cose che diversamente di persona non potrebbe mai vedere. Questo ha un valore divulgativo, dimostrativo, credo possa far bene!”.

 

“Un modello di circolarità – continua l’editoriale sul bivacco Ratti – basato sul riuso: molte strutture temporanee delle Olimpiadi potrebbero avere una seconda vita in quota. L’idea, inoltre, ha un precedente di successo in Casa Canada di Torino 2006, poi diventata Rifugio Melano a Frossasco”.

 

Sarebbe perfetto – commenta Gibello – se si parlasse di un rifugio: un struttura che ha una scala dimensionale più grande e un progetto che viene realizzato secondo i crismi dell’edilizia, cioè della costruzione in loco”. I bivacchi, al contrario, sono la quintessenza della capsula minima di sopravvivenza in ambiente più estremo: sono più piccoli e si collocano su siti che sono spesso dei piccoli terrazzini di roccia. “Cosa facciamo dunque?”, prosegue Gibello. “Stando a Ratti dovremmo fare il rilievo digitale di quel sito lì per poi fare una cosa customizzata, ad hoc, perché abbiamo la prefabbricazione digitale. Così, appena il terrazzino o la cengia sono un po’ diversi, dobbiamo aprire il bando per un progetto nuovo”.

 

Non è dello stesso avviso l’architetto professore del Mit e del Politecnico: “La personalizzazione digitale può aiutarci a costruire meglio in quota. Non ‘astronavi’ atterrate da chissà dove, con fondazioni in acciaio o calcestruzzo che feriscono la montagna, ma architetture che si integrano con discrezione. Grazie ai rilievi tridimensionali e alla fabbricazione computerizzata possiamo adattare ogni struttura alle condizioni specifiche del sito, riducendo sprechi, semplificando il montaggio e rendendo più facile lo smontaggio a fine vita”.

 

Eppure, secondo i membri dell’associazione Cantieri d’alta quota, esperti architetti, gli sprechi di un progetto “site-specific” rischiano d’essere ben maggiori.

 

“Alcuni colleghi, che di bivacchi ne han costruiti davvero, sanno bene che la roccia è geliva: ghiacciando si allarga, si stringe, si sposta e si rompe. Un modello standard, se dopo un anno c’è stato un cedimento da una parte, alzando un po’ una vite di qua, regolando un po’, sta ancora lì senza problemi. Il pezzo fatto su misura, che hai incastrato come un mobile perfetto in quella fessura come fosse un friend o un nut da arrampicata, nel momento in cui quella fessura lì si allarga o si muove, si frantuma; e il bivacco è da rifare”.

 

Carlo Ratti non sembra temere il rischio di costruire un’architettura labile. Piuttosto, su suggerimento di un amico (“uno di quei montanari un po’ mugugnoni”), riflette sul rischio di aver progettato un bivacco ‘troppo bello’.

 

“L’è trop bell, vedrai che attirerà influencer sui sentieri alpini e si faranno male”.

 

Tuttavia, secondo Ratti, i bivacchi tradizionali sono roba d’altri tempi, frutto di “un modo antico di andare in montagna, come i pantaloni alla zuava e gli scarponi con le Vibram avvitate sulla tomaia”.

 

“Quali potrebbero essere allora le soluzioni? Non credo che la risposta del mio amico – costruire brutte strutture alpine e rendere le nostre montagne meno attraenti – sia quella giusta. Sarebbe come contrastare l’overtourism a Venezia piazzando un ecomostro in piazza San Marco. Senza contare che molti architetti poco attenti hanno già sfregiato molte aree alpine negli ultimi decenni”.

 

Non è chiaro qui se il riferimento vada a specifici progetti architettonici. Ad ogni modo, non ci risultano tentativi di riportare in auge il bivacco Ravelli, semmai l’idea è cercare un compromesso che adegui la forma alla fruizione. Secondo Gibello, come in ogni tempo, è l’utilizzo a determinare la forma, l’estetica arriva in un secondo momento. Secondo momento che, in condizioni estreme e imprevedibili, come sempre più quelle d’alta quota, molto spesso è estremamente risicato.

 

“Nel momento in cui approcciamo bene la questione dell’alta quota, sappiamo che dobbiamo fare delle cose capaci di resistere, leggere, non soggette a deperimento, e che si possono adattare alla mutevolezza del contesto. Il risultato, poi, verrà di conseguenza anche dal punto di vista formale. Nel momento in cui si è risolto tutte queste cose, non credo che ci sia poi così tanto margine di discussione: che la finestrella la faccio quadrata, piuttosto che circolare, più o meno sarà quello”. 

 

“Propongo un esempio analogo: una barca da regata, tipo Luna Rossa. Una volta progettate le linee, l’aerodinamica e tutti i fattori che contribuiscono a certe prestazioni, i modelli son quelli. Non c’è spazio per l’arricchimento estetico”.

 

Eppure, Ratti sceglie di dare fiducia al dato estetico: “Credo invece che la bellezza possa essere la migliore difesa della montagna”. Questa non andrebbe a discapito – almeno non direttamente – della montagna, proprio in virtù delle molteplici accortezze di efficienza e sostenibilità, garantite dalla progettazione su misura per il sito dove verrà collocata.

 

In conclusione del suo editoriale, Carlo Ratti promette: “Le Olimpiadi possono diventare il laboratorio in cui l’Italia diventa modello di come costruire in montagna tra bellezza e sostenibilità. Parafrasando Dostoevskij, forse non solo la bellezza, ma anche le montagne salveranno il mondo. Se saremo in grado di ascoltarle”.

 

Senza scomodare ulteriormente i romanzieri russi, va espressa qui una riflessione che ci riporta anche ai due interrogativi di partenza. Parlare generalmente di edilizia o di architettura di montagna, per una riflessione che ruota poi esclusivamente attorno all’oggetto “bivacco”, cade nella contraddizione di un modo di intendere la montagna esclusivamente come un luogo da frequentare in modo temporaneo; come uno spazio ludico; come un enorme parco dove trascorrere qualche ora/giorno di svago. In quest’approccio, infatti, viene completamente trascurata una dimensione della montagna in cui si vive e lavora, favorendone appunto la percezione come un’ambiente di occasionale frequentazione. La casa, le strutture sanitarie, le scuole, l’industria, i locali alberghieri, eccetera: non sono forse temi di competenza dell’edilizia di montagna questi?

 

Perché mai, se è così, non ci si stranisce a parlare di “architettura di montagna”, concentrando poi il discorso esclusivamente su una struttura pensata come appoggio eccezionale e di emergenza, nonché, oramai, di svago? Non si rischia così, piuttosto che diventare “un modello globale per l’architettura alpina”, di rivelarsi il modello dell’architettura da weekend fuori porta? Anche questa volta, c’è da credere, ci sarà ulteriore occasione di parlarne.

 

Immagine di apertura: il nuovo bivacco di Cra-Carlo Ratti Associati