Mentre il cessate il fuoco mediato dagli Stati Uniti vacilla, a causa di ripetuti attacchi e violazioni da parte di Israele, la situazione umanitaria nella Striscia di Gaza non fa altro che peggiorare. Emergency è presente a Gaza da agosto 2024 e gestisce diversi progetti, come una clinica nell’area di Khan Younis, e offre assistenza sanitaria di base nella clinica da campo che sorge nella località di al-Mawasi. Abbiamo raggiunto telefonicamente Alessandro Migliorati, capo progetto di Emergency a Gaza da marzo 2025, con cui abbiamo parlato riguardo la condizione umanitaria in cui verte la Striscia oggi.
Quale è, dopo l’accordo di “pace”, la situazione umanitaria nella Striscia ?
C’è un 54% della Striscia tuttora occupato dall’IDF, da dove si sentono costantemente esplosioni e gli edifici vengono fatti crollare. Oltre a questo, ci sono bombardamenti aerei regolari. Dall’inizio del cessate il fuoco ci sono già state diverse giornate di maxi-escalation, in cui le attività militari si sono estese anche a quel 46% di territorio che dovrebbe essere l’area da cui l’IDF si è ritirato. In quelle occasioni ci sono stati attacchi mirati con droni, anche a un chilometro da casa nostra. Quindi chiamarla “pace” è assolutamente fuori luogo e chiamarlo “cessate il fuoco” è un’iperbole.
Nella parte sotto occupazione le azioni militari hanno come obiettivo solo la distruzione delle infrastrutture, o ci sono anche vittime civili?
Ci sono anche vittime civili. L’esercito israeliano ha tracciato una “linea gialla” per delimitare l’area dove si può stare e quella in cui non si deve entrare. Ma se un palestinese si avvicina a quella linea, viene attaccato. I civili sono morti già dal primo giorno di cessate il fuoco, quando la linea era più bassa. Venivano colpiti dai tank. Durante l’ultima escalation, ci sono stati cento morti in ventiquattr’ore, di cui circa sessanta bambini. Questo tra la zona che dovrebbe essere “libera” e quella ancora occupata. Il punto è che non puoi proclamare un cessate il fuoco e poi sparare a vista a chi si avvicina a una linea che non è neanche chiara. La tutela dei civili non esiste.
Dall’11 ottobre, giorno successivo alla firma del cessate il fuoco, avete visto movimenti di persone verso nord, verso Gaza City?
Nei primi giorni sì, c’è stata una prima ondata di persone che hanno provato a tornare verso Gaza City. Ma poi molti si sono fermati: hanno visto che bastava avvicinarsi alla linea gialla per essere colpiti. Adesso, dopo un mese, la maggior parte delle persone non si muove più. Non si fidano, pensano che il cessate il fuoco non reggerà. Restano nei campi, nelle tende. C’è molta attesa e poca fiducia.
Qual è la condizione nei campi profughi?
Le condizioni di vita sono pessime. I campi profughi sono sovraffollati, mancano i servizi di base, i materiali igienici. Ci sono continuamente infezioni della pelle, delle vie respiratorie e urinarie Le persone vivono in tende piccole con almeno dieci familiari, senza un tetto solido, esposti alle intemperie. Fa ancora caldo ma l’umidità è altissima e l’inverno è alle porte. È una condizione durissima.
Per quanto riguarda il cibo, avete visto più aiuti, più derrate alimentari?
Dall’inizio del cessate il fuoco sono entrati pochissimi aiuti. Dobbiamo distinguere: ci sono gli aiuti umanitari e quelli commerciali. Degli aiuti umanitari è entrato solo un sesto di quanto era stato promesso negli accordi. C’è ancora una grossa carenza di farmaci e di materiale per rifugi. Il cibo da distribuire alla popolazione è arrivato in quantità molto ridotta. Sono entrati invece più camion commerciali e nei mercati oggi si vede più cibo rispetto all’estate. Ma una grandissima fetta della popolazione non ha la capacità economica per acquistare questi beni: i prezzi non sono più altissimi come ad agosto -100 euro per un chilo di farina- ma oltre il 60% delle persone è disoccupato. Questa è la grossa pressione che fanno le ONG: la gente ha bisogno di cibo a costo zero.
Quel poco che entra, come viene gestito? Ci sono ancora episodi di saccheggi dei camion umanitari?
Sì, succede ancora. È successo anche negli scorsi giorni. Il problema è che dovrebbero entrare 300 camion e ne entrano due, le persone si organizzano per andare a prendere quello che riescono. Non è moralmente “giusto”, ma è logico: se lanci due panini in una stanza con cento persone affamate, è normale che si azzuffino per prenderli. Quando, subito dopo il cessate il fuoco, sembrava che gli aiuti sarebbero tornati regolari, i saccheggi si erano fermati. Ma dopo dieci, quindici giorni, vedendo che la situazione non cambiava, tutto è tornato come prima.
A livello medico, qual è la situazione?
Manca ancora tutto: garze, antibiotici, anestetici, materiale da sala operatoria. Non entrano camion commerciali di farmaci: è tutto mercato nero. Se una cosa in Italia costa 10, qui la paghi 1.000, se la trovi. E spesso si tratta di materiale rimasto in qualche magazzino o trafugato.
Quanti casi casi di malnutrizione grave vedete?
Ad ottobre abbiamo registrato circa 70 bambini malnutriti sotto i cinque anni. Ci occupiamo solo di quella fascia d’età. Sono soprattutto famiglie indigenti, che non possono comprare nulla. La malnutrizione richiede tempo per essere recuperata, quindi non si vedono ancora miglioramenti.
Com’è l’umore generale della popolazione?
Tutti camminano sulle uova. C’è voglia di essere ottimisti, ma anche paura di illudersi. La gente è in stand-by, osserva. Parlo soprattutto con colleghi che hanno uno stipendio, e anche loro vivono alla giornata. Si godono piccole cose: chi riesce a fumare di nuovo dopo mesi, chi trova un caffè. Non sono grandi passi — non tornano nelle loro case — ma piccoli segni di normalità. Rimane comunque una cautela estrema. Ci tengo a dire un’altra cosa. Ho visto dall’Italia un grande movimento di protesta, e so che c’è stata molta polemica sulla sua utilità. Da qui possiamo dire che è servito. Subito dopo le proteste, il governo italiano ha ripreso i voli di evacuazione medica verso l’Italia, che erano stati sospesi. Per la popolazione palestinese sapere che la gente in Italia manifestava ha avuto un effetto enorme: molti ci hanno detto di averlo visto e si sentivano sostenuti. Non deve calare l’attenzione ora, di fronte all’idea che ci sia la pace: perché la pace non c’è, c’è un cessate il fuoco parziale, fragile. Ma c’è ancora speranza, e non è solo idealismo: in questi sei mesi ho visto persone che, nonostante tutto, continuano a vivere — giocano a carte sotto le tende, si innamorano, fanno figli, studiano per l’esame di maturità. Sono cose normali, ma importanti. Troppo spesso ci immaginiamo i palestinesi solo come vittime passive, come gente che non fa più nulla se non scappare o morire. È vero che soffrono, ma continuano a vivere. È importante raccontarlo: anche nei momenti più duri, la normalità resiste.
Filippo Zingone
