di
Vera Martinella

I sintomi da non trascurare, il test salvavita (gratis, che fa solo il 37% degli italiani) e le nuove terapie che allungano le prospettive dei malati

«Diciamo che ho l’impressione che non guarirò, ecco, devo convivere con la malattia. Non è che penso alla mia malattia tutto il giorno perché non fa parte di me. Se sto bene mi godo quello che il giorno mi offre, perché vado a giornate non faccio più grandi progetti. Certo è una vita particolare perché prima viaggiavamo con mio marito adesso è difficile farlo. Adesso poi che sono tornata a fare la chemioterapia è complicato. Non potrò andare in Giappone, sarebbe stata una cosa che mi piaceva, andrò in qualche posto più vicino. Bisogna adattarsi un po’».
L’esperienza di Barbara, a cui  due anni fa è stato diagnosticato un tumore al colon in stadio metastatico, è simile a quella di migliaia di italiani che 
hanno una neoplasia dalla quale è difficile guarire, ma per la quale esistono diverse terapie efficaci in grado di allungare il loro orizzonte temporale con una buona qualità di vita.

Barbara ha 66 anni, è nata a Padova, è laureata in architettura ed è la protagonista del nuovo episodio del podcast «Prima, durante, dopo. Prevenire, affrontare, superare il cancro» (una serie del Corriere della Sera in collaborazione con Aiom, l’Associazione italiana di oncologia medica).



















































Attenzione a questi sintomi (anche prima dei 50 anni)

Dopo aver lavorato per oltre  20 anni nell’amministrazione pubblica della sua città, Barbara si era trasferita con il marito a Perugia, dove ha realizzato il suo sogno: prendere un diploma specialistico all’Accademia delle Belle Arti. «Durante la pandemia, invece che stare a casa e non fare niente, mi sono ri-iscritta al biennio di Scultura, ho finito gli esami nel 2022 e stavo preparando il lavoro di tesi, quando a marzo del 2023 ho scoperto di essere malata».  
Il sintomo che l’ha messa in allarme è quello più tipico del cancro al colon retto: la presenza di sangue nelle feci.  «Bisogna anche prestare attenzione ai cambiamenti improvvisi e persistenti delle abitudini intestinali – spiega Sara Lonardi, direttrice dell’Oncologia 1 presso l’Istituto Oncologico Veneto IRCCS di Padova -. Una persona che ha sempre fatto molta fatica ad andare di corpo e che invece improvvisamente sviluppa una diarrea, o il contrario: chi ha avuto sempre un intestino regolare e soffre particolarmente di stitichezza. Ovviamente tutte le volte che vedo colori anomali nelle feci oppure striature di sangue, dolori addominali che si ripetono senza una spiegazione valida». 
Sono campanelli d’allarme che non vanno sottovalutati anche prima dei 50 anni perché (soprattutto negli Stati Uniti) i casi fra i giovani sono in aumento

Un tumore che si può evitare in 9 casi su 10

Quello al colon-retto che, con quasi 49mila nuovi casi registrati ogni anno in Italia è il secondo tipo di tumore più frequente nel nostro Paese ed è anche il secondo nella poco ambita classifica dei più letali, potrebbe essere prevenuto in 9 casi su 10 grazie a un test semplice e indolore che milioni di italiani scelgono di non fare: il test per la ricerca del sangue occulto nelle feci. L’esame (facile e indolore) viene offerto dal Servizio sanitario nazionale a tutti i cittadini fra i 50 e i 70 anni che ricevono, ogni due anni, una lettera da parte della propria Asl, ma solo il 34% degli italiani coglie l’opportunità.  
Eppure è un vero e proprio salvavita dato che quasi il 90% dei carcinomi del colon-retto si sviluppa a partire da adenomi che impiegano anni, in media una decina, per trasformarsi in forme maligne: è in questa finestra temporale che lo screening con il test per la ricerca del sangue occulto nelle feci consente di fare una diagnosi precoce ed eliminare i polipi intestinali prima che abbiano acquisito caratteristiche pericolose ed evolvano in un tumore maligno.

Test salvavita e colonscopia

«Nella maggior parte dei casi il tumore del colon si sviluppa molto lentamente, le cellule iniziano a modificarsi, prolificano in maniera esagerata formando dei polipi, che per molto tempo restano polipi benigni – dice Lonardi -. Ad un certo punto questi polipi benigni, non tutti, non sempre, però possono fare un salto in avanti e acquisire alcune caratteristiche maligne e quindi con la potenzialità di diffondersi anche in altre parti del corpo. Il sangue occulto fecale è un esame sentinella, molto spesso da questi polipi vengono rilasciate delle micro gocce di sangue, anche quando noi non le vediamo nelle feci, per quello si chiama “sangue occulto fecale”. Non dobbiamo aspettare di vedere le feci striate di sangue o di un colore anomalo. Ci sono delle micro perdite che vengono identificate da questo esame e quando questo succede il percorso avvia in maniera automatica l’esecuzione di una colonoscopia». 
La colonscopia permette di evidenziare e asportare un’eventuale lesione precancerosa o di eseguire una biopsia. Il vantaggio è chiaro e i numeri pure: partecipare allo screening riduce la mortalità per tumore del colon-retto del 20-30%, proprio grazie alla diagnosi precoce e alla possibilità di intervenire subito sulle lesioni in fase iniziale.

Chi rischia di più

Barbara aveva fatto lo screening e anche una colonscopia, ma  come lei stessa racconta: «Ho una storia familiare non buona, perché mio padre è morto di  tumore al colon a 63 anni. Mia madre che era morta di cancro al seno molto più giovane, aveva 43 anni, e io ho forse privilegiato i controlli al seno piuttosto che all’intestino».
«L’insorgenza della gran parte dei tumori del colon-retto è legata ad abitudini di vita non corrette – ricorda Lonardi -: dieta povera di fibre, eccessivo consumo di grassi animali e carni rosse, assunzione di cibi processati (insaccati), sovrappeso/obesità, fumo, alcol e scarsa attività fisica. Fattori che potrebbero anche spiegare la crescita di casi in persone “giovani”. Ulteriori fattori di rischio sono le malattie infiammatorie croniche dell’intestino, colite ulcerosa e morbo di Crohn, che predispongono all’insorgenza di tumori del colon-retto».
Circa un quarto dei tumori del colon-retto, poi, presenta caratteristiche di familiarità e circa il 10% ascrivibile a mutazioni genetiche ereditarie e a queste persone sono consigliati dei controlli specifici: «Sappiamo che se un genitore ha avuto un tumore intestinale i figli hanno 5-6 volte di più il rischio» aggiunge l’esperta.

Le terapie

Come ricorda l’oncologa che ha in cura Barbara «il tumore del colon, quando viene diagnosticato in stadio limitato all’organo stesso o a linfonodi limitrofi, come primo approccio si beneficia chiaramente di un intervento chirurgico che rimuova in maniera completa la parte di intestino interessata dalla malattia e tutti i linfonodi che a quella parte di intestino sono collegati. Poi una volta fatta la chirurgia l’esame istologico viene verificato e, in base alle caratteristiche di rischio che vanno poi a definire quanta probabilità c’è che la malattia possa ritornare fuori nel tempo, si decide se sia appropriato somministrare un trattamento chemioterapico post-operatorio che ha l’obiettivo di ridurre il rischio di ricaduta».
Non è, purtroppo, il caso di Barbara che sin dalla diagnosi aveva già metastasi al fegato: «Il chirurgo mi ha detto: “Signora, lei non può togliere niente per adesso, è inoperabile”. Dopo le prime 12 chemioterapie sono risultata operabile, è stato fatto un grande intervento, sia all’intestino che al fegato. Non poter essere operati subito non significa non poter essere curati. I progressi terapeutici consentono oggi a molti pazienti di arrivare alla chirurgia in un secondo momento, dopo i trattamenti farmacologici.

Nuovi farmaci per puntare alla guarigione in più persone

«Alcune categorie di pazienti che hanno ottenuto risultati così buoni da assimilarli quasi a una guarigione – conclude Lonardi -: ad esempio le persone che hanno un tumore con il deficit di alcune proteine che si chiamano del riparo del DNA vengono oggi trattate con immunoterapia e circa il 60-70% di loro seppur metastatico trattato con immunoterapia può avere uno stato che è simile alla guarigione. A oggi sono lungo-sopravviventi oltre i 5 anni, ormai si avvicinano ai 10 anni, perché li abbiamo iniziati a trattare dal 2015: quindi ci sono sottogruppi di pazienti per cui abbiamo avuto degli avanzamenti incredibili. Il lavoro che si sta facendo oggi, ricercando nuovi farmaci (terapie target o immunoterapie) è allargare la platea di pazienti che si possono beneficiare di questi trattamenti estremamente attivi. La ricerca sta facendo molto e quello che noi speriamo è veramente di arrivare a dare delle risposte personalizzate a tutti i nostri pazienti». 

Barbara, intanto, procede con le sue terapie: «Io sono stata “presa per il coppino” perché la mia malattia era molto grave  e so che posso continuare a vivere  curandomi in maniera continuativa. La prospettiva è una cosa che uno non prende più in considerazione, non me la do più io. La mia prospettiva era di riuscire a finire la tesi e laurearmi, l’ho fatto e sono felice. Ora cerco di stare sul pezzo, giorno per giorno».  

13 novembre 2025 ( modifica il 13 novembre 2025 | 06:59)

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