Il titolo del libro trasmette speranza. Non si tratta di un’illusione, quanto della concreta possibilità di un buon invecchiamento, costruito con impegno e determinazione attraverso scelte possibili della persona nel trascorrere degli anni». È ispirato al realismo e a uno sguardo ottimista sulla vita degli anziani il nuovo libro dello psichiatra Marco Trabucchi “Invecchiare non fa paura” (San Paolo, 220 pagine, 18 euro). Sabato 15 presentazione a Milano, nell’ambito di BookCity, alle 11 al Museo della Scienza e della Tecnologia. Trabucchi dialogherà con Michela Marzano, moderati da Francesco Ognibene di Avvenire.

La solitudine ha un ruolo rilevante nel processo di buon invecchiamento; sviluppa, infatti, il suo effetto negativo sia nel periodo del prepensionamento, quando la persona deve impegnarsi a costruire il proprio futuro, sia quando si trova nella condizione di dover decidere come vivere bene anche nel tempo della vecchiaia. La solitudine diviene un tempo negativo quando l’individuo percepisce, anche in mezzo alla folla, di non riuscire a pensare a qualcuno che lo ascolti e lo accompagni nel momento del bisogno e del dolore. È stato rilevato che oggi in Italia un ultrasessantenne su 6 non ha contatti significativi e che con l’avanzare dell’età questi valori aumentano fortemente.

Chi è solo non si sente di appartenere ad alcuna comunità: i tradizionali legami si sono diradati a causa della crisi delle tradizionali aggregazioni, laiche e religiose; in particolare, Dio è scomparso dai radar mentali di moltissimi anziani, che così hanno perso la possibilità di un dialogo che rendeva più accettabili condizioni di vita oggettivamente difficili, e quindi anche la solitudine. La crisi del rapporto di coppia e la rottura del matrimonio è un’altra dimensione che favorisce la solitudine; attorno a queste dinamiche non è raro percepire, in modo più o meno palese, che il coniuge più solo pensa in silenzio: «Piuttosto di questa solitudine, lo riaccoglierei a casa». La tragedia della solitudine, il vuoto delle mattine e delle sere sono così dolorosi e penetranti che la persona sarebbe disposta anche a costruire situazioni precarie. Peraltro, vi sono altri soggetti che per nessun motivo accetterebbero un compromesso nella qualità delle loro relazioni, e così la solitudine diviene progressivamente sempre più drammatica. La solitudine provoca spesso depressione, in forme che non sempre rispondono ai farmaci. La solitudine induce un aumento dell’incidenza di demenza; la persona entra in una condizione che tende ad autoaggravarsi, perché la demenza stessa provoca un’ulteriore rarefazione delle relazioni. Talvolta è doveroso dare attenzione al rischio di suicidio, condizione purtroppo scarsamente considerata come possibilità nella vita della persona anziana. Negli Usa il tasso di suicidio dell’anziano è sei volte superiore nell’uomo rispetto alla donna; gli uomini non chiedono aiuto, “non piangono” e, quindi, soffrono, mentre le donne più frequentemente hanno qualcuno sul quale appoggiarsi nella disperazione, ricavandone sollievo.

«Un paese ci vuole, non fosse per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti» (Cesare Pavese, La luna e i falò): questa bellissima, struggente frase testimonia la nostalgia che talvolta colpisce quando la solitudine del presente induce a pensare ai tempi passati. La persona in queste circostanze si trova all’interno di un tunnel di dolore da cui è difficile uscire. Anche la scarsa cultura e le condizioni di marginalità sociale accelerano l’invecchiamento. Una comunità attenta deve quindi stendere reti protettive attorno a chi non ha avuto la fortuna di ricevere un’adeguata istruzione e chi vive in povertà. Non è sempre facile raggiungere risultati significativi, ma talvolta la sola attenzione sociale produce il risultato di convincere gli interessati che non sono abbandonati a loro stessi, ottenendo così qualche piccolo miglioramento della qualità della vita. (…)

Il timore delle demenze è forse la più profonda tra le paure delle malattie che colpisce l’essere umano di oggi. La paura di perdere il controllo sulla propria vita, di essere dipendenti per le vicende di tutti i giorni, di essere di peso, di deludere i propri cari con comportamenti inappropriati sono sentimenti frequenti. Notizie insistenti sui mezzi di informazione influenzano chi teme di ritrovarsi nelle condizioni descritte. Le descrizioni tendono a focalizzarsi sugli aspetti più negativi e la demenza viene descritta come “una bomba pronta a esplodere”, come uno “tsunami” o come “peggiore della morte”. La paura induce la tendenza del potenziale ammalato a nascondere i sintomi, e a non comunicare con la famiglia e con il medico; così si provoca un allungamento del tempo della diagnosi. Anche chi non ha sintomi (o almeno sintomi clinicamente rilevabili) tende a focalizzarsi sull’interpretazione negativa di alcuni segni, come la dimenticanza dei nomi. L’autocontrollo forzato e la decisione di nascondere anche a sé stessi eventuali difficoltà sono dannosi, perché inducono incertezze nei propri comportamenti, e di conseguenza un peggioramento del disagio. In queste circostanze la persona coglie ogni informazione, anche le più sballate, e tende a immedesimarsi: “Capiterà anche a me”. Talvolta la paura della demenza induce depressione, condizione che a sua volta può peggiorare l’attenzione e la memoria. L’ansia che consegue alla paura può portare a diagnosi sbagliate e all’assunzione di farmaci inutili o dannosi. Inoltre, l’aumentata disponibilità di strumenti di autodiagnosi, come i marker genetici effettuabili sul plasma e su altri liquidi biologici di facile accesso, rischia di indurre un’epidemia di paura anche tra persone sane, che non sono in grado di comprendere la differenza tra predisposizione alla malattia e la reale espressione. In questo ambito, la sempre maggiore facilità di accesso ai nuovi strumenti diagnostici dovrà indurre forti azioni educative, per evitare un’epidemia di paura, con grave danno per la salute mentale dei cittadini ed un inutile spreco di risorse da parte del sistema sanitario per rispondere a pressanti richieste spesso non motivate.

Direttore scientifico, Gruppo di ricerca geriatrica, Brescia