Condividi
“Presence” di Steve Soderbergh arriva ora nelle nostre sale, dopo essere stato presentato con successo all’ultimo Sundance Film Festival e aver ricevuto il plauso della critica internazionale. Il regista americano stavolta si dedica all’horror, ma lo fa con un film atipico, concettuale, metaforico, molto personale ma con cui sa cucire una metafora universale.
“Presence” – la trama
Ma tu guarda che matto Steven Soderbergh, che arriva e con “Presence”ci regala un film di fantasmi che non sembra neanche un film di fantasmi, sembra un film su di noi, so cosa siamo diventati, su come è cambiato il nostro mondo. Dice di aver visto veramente dei fantasmi, di averne in casa Soderbergh, e quindi questo è un film molto particolare per lui, che opta per un esercizio di stile concettuale, minimale si potrebbe dire. “Presence” dura meno di 90 minuti, è un horror soprannaturale molto sui generis, diciamo pure atipico rispetto alla contemporaneità, nella sua struttura narrativa, e anche nella sua estetica. Il regista più sottovalutato della sua generazione, sfruttando il suo usuale sodalizio con David Koepp, torna alle origini del genere, alla sua essenza, quella che trasforma le pareti domestiche in una trappola. La trappola però è per noi, si perché in “Presence” il nostro sguardo si sovrappone a quello del fantasma, che osserva questa famiglia in crisi, formata dal padre Chris (Chris Sullivan), Rebekah (Lucy Liu), Chloe (Callina Ling) e Tyler (Eddy Maday). Non c’è una buona aria per casa, Rebekah è indagata per reati finanziari, Chloe invece ha appena perso l’amica Nadia da poco.
Si spostano in quella casa in periferia consci del fatto che non sarà facile, ma non immaginano quanto. Litigi, discussioni, incomprensioni, la tensione che cresce, l’incomunicabilità che domina. Sì, forse non è stata una grande idea prendere quella casa, una casa che, ovviamente i nuovi inquilini lo scopriranno col tempo, è dominata da un’entità ultraterrena che però è invisibile. Il film la cesella come fatta di rumori, suggestioni, ma soprattutto si nutre del nostro sguardo che si sovrappone al suo, all’uso del grandangolo, a questa fotografia così fredda di Peter Andrews, al 14mm con cui Steven Soderbergh abbraccia in modo totalizzante il nostro sguardo in questo XXI secolo tecnocratico. “Presence” a una certa fa nascere in noi il dubbio: crediamo nei fantasmi perché crediamo nell’aldilà, oppure li abbiamo creati per pensare a un qualcuno che ci ascolta quando nessun altro lo fa? “Presence” più che un horror, diventi un ragionamento sull’horror come forma espressiva per Steven Soderbergh, in un film che ci parla del cinema, di un genere particolare, del perché ci affascina e del perché risulta essere ancora oggi così popolare, a dispetto del tempo che cambia, della tecnologia che si impadronisce di noi e del nostro mondo.
Si parla di fantasmi ma non si parla di fantasmi
“Presence” si avvale di un cast che sa perfettamente come rendersi interprete non solo della normalità, ma anche dell’ambiguità dei rapporti umani, che poi la parola d’ordine di questo film, in cui questo fantasma è passivo, come siamo passivi noi, nella vita, anche nella nostra. Ogni tanto si fa sentire, Chloe capisce che c’è qualcosa tra quelle mura, si arriva persino a convocare una sensitiva, poi ecco che sul finale, tutto cambia, da mero osservatore quella presenza diventa agente di un’azione repentina, di un cambiamento trasversale. A guardare i suoi ultimi lavori, appare evidente che Steven Soderbergh si stia interrogando sul rapporto in crisi tra uomo e azione, su come la società moderna ci abbia reso sempre più passivi, inerti, ma soprattutto affetti da voyeurismo. I social, la tecnologia, ci hanno reso fantasmi della nostra stessa vita, del nostro tempo e spazio, lo stesso concetto di narrazione video è diventato prolungamento della nostra identità, esemplificazione del dominio della narrazione, qualunque essa sia, sull’azione reale nel mondo reale. “Presence” esplora la nostra quotidianità in uno spettacolo dove ci sentiamo in disparte, quasi vergognandoci della nostra onniscenza.
Vediamo tutto ciò che quelle persone provano, sentono, discutono. Appare quindi chiaro che è la passività il sottotesto semantico di questo film, così essenziale, da certi punti di vista verrebbe da dire quasi così classico nella sua struttura. Regia perfetta, calibrata in ogni minimo dettaglio, un uso perfetto delle luci e delle ombre, della paura che infine non è per quell’essere, ma per il mondo reale, per ciò che possiamo fare gli uni con gli altri. L’horror paranormale nel XXI secolo si è preso il posto di quello che era un tempo lo slasher, è sopravvissuto alla nascita del torture, ma è e rimane, fin dalla narrativa di età vittoriana, per poi affondare nella mitologia, nel folklore, il grande protagonista del genere sul grande schermo. Quello che Steven Soderbergh ha fatto con “Presence” è stato utilizzare tutto questo bagaglio per fornirci un racconto in fin dei conti ottimista, fatto di una speranza, malinconico, strizzando l’occhio a M. Night Shyamalan e ciò che ci ha regalato. Difficile che piaccia a tutti, in particolare al pubblico mainstream, quello che concepisce questo tipo di film come lotta contro un altrove, presenze minacciose e sangue. Ma del resto, Soderbergh non è mai stato uno che lisciava il pubblico per il verso giusto, è sempre andato per la sua strada.
Voto: 7,5