Podcast, libri, serie e tanti, tantissimi approfondimenti tv: come testimonia oggi il giallo di Garlasco, diventato (anche) un caso mediatico, il cosiddetto “true crime”, genere che si concentra su fatti di cronaca nera e casi giudiziari realmente accaduti, conosce di questi tempi un’enorme popolarità. Ma perché l’analisi e la narrazione di eventi criminali affascina così tanto le persone? Semplice curiosità o c’è qualcosa di più profondo nell’interesse per i fatti di cronaca nera?

Viaggi e mente: la psicologa spiega l’importanza di viaggiare

Per fare chiarezza, abbiamo rivolto alcune domande a Danila De Stefano psicologa, fondatrice e CEO di Unobravo, che al tema ha dedicato di recente anche un episodio di “È Normale”, video podcast dedicato alla salute mentale.

True crime: perché affascina così tanto?

«Il true crime ci affascina perché tocca corde profonde e universali: la paura, la curiosità, il bisogno di capire l’inspiegabile – chiarisce la psicologa. – È un modo per esplorare, da una distanza di sicurezza, ciò che minaccia il nostro senso di stabilità: la violenza, la morte, la trasgressione. Allo stesso tempo, ci permette di osservare l’eccezione alla norma, quel “diverso da noi” che genera una tensione ambigua tra attrazione e repulsione. Il nostro cervello è naturalmente predisposto a prestare attenzione a storie intense, cariche di conflitti morali: il true crime ne è una forma narrativa potentissima, capace di tenere insieme intrattenimento, riflessione e catarsi».

Esiste il “fascino del male”

Viene da chiedersi anche se sia possibile parlare di una sorta di ‘fascino del male’. «In realtà è importante distinguere – spiega Danila De Stefano. – Esiste un disturbo psicologico noto come ibristofilia, che descrive un’attrazione erotica verso chi ha commesso crimini. Ma al di là della patologia, il “fascino del male” riguarda più spesso una curiosità profonda, quasi archetipica, verso ciò che infrange le regole. Il male ci affascina perché è l’ignoto per eccellenza, e comprenderlo ci dà l’illusione di poterlo controllare. C’è anche una componente di identificazione sicura: ascoltare storie del genere, senza esserne coinvolti, ci permette di affrontare paure profonde senza subirle. È una forma di elaborazione emotiva che ha radici antiche. Il male, in fondo, ci offre uno specchio: ci mostra ciò che potremmo diventare se certe linee interiori venissero oltrepassate. È per questo che ci attrae e ci inquieta allo stesso tempo».

Dietro il fenomeno, anche una risposta ‘evolutiva’

L’interesse per i crimini violenti può essere spiegato però anche come una sorta di risposta evolutiva, secondo quella che viene definita ‘preparedness theory’. Teoria per la quale siamo cioè biologicamente programmati per prestare attenzione alle minacce. «Ascoltare storie di crimini violenti può attivare una sorta di “simulazione mentale” che ci aiuta a riconoscere segnali di pericolo nella vita reale – conferma Danila De Stefano. – Non sorprende che molti spettatori abituali di true crime siano donne: c’è una dimensione di autodifesa implicita, un modo per allenare la vigilanza in un mondo dove, purtroppo, i pericoli non sono sempre lontani o anonimi, ma spesso si annidano nella cerchia degli affetti. Ne abbiamo parlato anche con Stefano Nazzi, giornalista di cronaca nera e autore del famoso podcast Indagini, nella nostra puntata del podcast di Unobravo “È Normale”, riflettendo sul bisogno di informarsi e proteggersi senza cedere al panico o alla sfiducia generalizzata. Il true crime, in questo senso, è anche un esercizio di sopravvivenza simbolica».

True crime e quel bisogno del cervello ‘di fare ordine’

E non è tutto, perché l’attrazione per il true crime può essere anche spiegata come una sorta di risposta a un bisogno fisiologico della nostra mente. « Il cervello umano fatica a tollerare il caos: davanti a un evento che viola le regole sociali, come un omicidio, la nostra mente cerca disperatamente di ricostruire un senso – sottolinea ancora la psicologa. –  Analizziamo il perché, cerchiamo moventi, pattern, spiegazioni. In questo senso, il true crime non è solo un passatempo: è anche un potente esercizio di sense-making. Cerchiamo di trasformare l’assurdo in qualcosa che abbia una logica, almeno sul piano narrativo. È una forma di “ordine mentale” che ci aiuta a gestire l’angoscia e a rimettere i pezzi al loro posto, anche se solo simbolicamente. Non è solo voyeurismo, ma un modo per ricucire la logica dove la realtà l’ha strappata. In fondo, è difficile fare pace con l’idea che il male a volte non abbia un perché – e così ci aggrappiamo al racconto, perché ci dia almeno una forma».

True crime: i rischi di un’eccessiva esposizione a fatti di cronaca nera

Quello che però spesso tendiamo a ignorare o minimizzare, sono i rischi legati a un’eccessiva esposizione a fatti di cronaca nera. «I contenuti ad alta intensità emotiva, se consumati in modo eccessivo o compulsivo, possono avere effetti collaterali. Uno è la desensibilizzazione: ascoltando troppe storie di violenza, si rischia di perdere il senso della gravità – mette in guardia Danila De Stefano. – Un altro è l’ansia: il mondo può iniziare a sembrare più pericoloso di quanto sia, alimentando uno stato di allerta costante. Questo può compromettere la nostra percezione della realtà e la qualità della vita. Il punto non è demonizzare il genere, ma promuovere un consumo consapevole, che lasci spazio alla riflessione e non si trasformi in una fuga o in una forma di dipendenza emotiva. Un contenuto può toccare, insomma, ma non dovrebbe mai alienarci».

True crime ed ‘Effetto Copycat’

Infine, il modo in cui certi fatti di cronaca nera vengono raccontati, possono generare il cosiddetto effetto ‘copycat’ o effetto copione? «Sì, il rischio c’è. Questo si verifica quando un crimine viene narrato in modo spettacolare o mitizzato, e chi ascolta, specie se vulnerabile, può identificarvisi fino a emularlo – spiega la psicologa. È una responsabilità enorme, che riguarda chi fa informazione ma anche chi produce contenuti di intrattenimento. Raccontare non dovrebbe mai dire spettacolarizzare. È uno dei motivi per cui, nella puntata con Stefano Nazzi, ho apprezzato profondamente il suo approccio: mai morboso, mai giudicante, ma sempre rispettoso delle vittime, delle indagini, della complessità dei fatti e dell’intelligenza di chi ascolta. Il suo modo di raccontare è un esempio virtuoso di come si possa fare cronaca nera senza cadere nel sensazionalismo. Raccontare è anche un atto etico: ogni parola che scegliamo può essere una luce o un coltello».

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