di Walter Veltroni

I tre comici tornano con il documentario “Attitudini: nessuna”, nel quale raccontano la storia della loro vita, le famiglie proletarie, gli anni duri in fabbrica. Giovanni: «I miei genitori non mi hanno mai messo paletti, si divertivano». Aldo: «Sentivo di voler dimostrare qualcosa». Giacomo: «Errori? Girare “Fuga da Reuma Park”»

Ho ritrovato Aldo, Giovanni e Giacomo, tre puri geni, per parlare del documentario «Attitudini: nessuna», in uscita nelle sale il 4 dicembre.

Nel film Aldo dice: «Per fare il comico devi avere fame».
Aldo: «Sì, devi avere fame è inteso anche come voglia di cambiare le cose. Noi siamo figli di operai e siamo stati operai a nostra volta. Io lavoravo alla SIP, per cui avevo uno stipendio sicuro. Ho deciso di licenziarmi, di affrontare la vita in un altro modo. Di farmela piacere, questa vita, non di fare un mestiere che non mi avrebbe dato emozioni. Avere fame significa aver voglia di rischiare, aver voglia di dimostrare qualcosa».
Giacomo: «Lo stesso è per me. Ho lavorato in fabbrica come saldatore e poi in ospedale. Eravamo tranquilli e sistemati. Ma non eravamo felici».



















































È bello quando nel documentario torni davanti alla tua fabbrica, che non c’è più.
Giacomo:
«Il 2 novembre, la festa dei morti, sono andato al mio paese, a salutare i miei genitori che stanno lì e ho incontrato il figlio del proprietario dell’azienda. Abbiamo parlato degli anni della fabbrica. Anni duri, lui stesso me l’ha ricordato. “Ma è vero che non si poteva parlare con mio papà che era il proprietario?”. Era proprio così. Gli operai ragionavano sottovoce, se ti sentiva parlare, il titolare diceva: “Ma io vi pago per parlare o per lavorare?”».

Ricordi l’orgoglio della tua famiglia quando in ospedale fosti promosso, un Poretti non era mai stato caposala…
Giacomo: «Mio padre faceva l’operaio metalmeccanico, il fresatore. E la mamma faceva l’operaia tessile, poi la casalinga. Io volevo andare oltre e mi sono avvicinato all’oratorio dove c’era un teatro, L’Arsenale, in cui facevano dei corsi. Era la stessa scuola che hanno fatto anche Giovanni e Aldo…».
Giovanni: «Noi avevamo chiesto che non lo prendessero, lui. Però purtroppo non ci hanno ascoltato».

Giovanni, nel film torni nella casa della tua infanzia e scopri che c’è ancora il bagno nella ringhiera.
Giovanni: «È stata una sorpresa anche per me, non me l’aspettavo. Abbiamo abitato lì fino a quando ho avuto 14 anni. Il nostro bagno era quello lì. Non era un bagno, era un cesso alla turca. Ed è ancora così. L’ho ritrovato intatto, non hanno avuto il coraggio di metterlo a posto».
Aldo: «Perché ormai è un pezzo da museo, Giovanni».
Giacomo: «Adesso lo abbatteranno, Giova».
Giovanni: «Speriamo di no. O forse ci mettono una targa, che è quasi peggio. Sai che è una buona idea? Il testo potrebbe essere: “Qui espletò i suoi bisogni Giovanni Storti del famoso trio Aldo, Giovanni e Giacomo”».

Nel film dite: «C’era poco ed era prezioso».
Giovanni: «Avevamo meno, però ci sembrava tanto. Ci sentivamo in un gruppo, capivamo di condividere quella condizione. Era un gruppo sociale, qualcosa che adesso non c’è più. Eravamo poveri o quasi, ma ci scambiavamo opinioni, giocavamo, facevamo esperienze insieme e quindi qualsiasi cosa di quell’ambiente era preziosa. Oggi è tutto frammentato e solitario. A noi bastava poco per essere felici. Quando abbiamo vinto nell’82 i Mondiali, mio papà si è affacciato sul terrazzo e ha gridato: “Ci vogliono tre Führer per abbattere l’Italia!”».
Giacomo: «Le nostre erano famiglie dignitose, di lavoratori, ma non potevamo permetterci quasi nulla. Però non è che ci mancasse il jeans, la giacca, o il giubbotto. Stavamo bene così, no? Non ci si preoccupava – vero Giova? – di ’sta roba».

Aldo, tuo papà che faceva?
Aldo: «Mio papà lavorava all’inizio alle Poste, poi alla Motta. E poi, per arrotondare, ha fatto il tassista abusivo. Quando abbiamo girato “Chiedimi se sono felice”, noi eravamo alla Stazione Centrale e guarda caso c’era lui. Mi vede e mi fa: “E tu che ci fai qua?” “No, che ci fai tu?”».

Quanto sono stati contenti i vostri genitori? Tuo padre, Giovanni, lavorava alla rotativa del Corriere, avrebbe stampato questa intervista…
Giovanni: «Io devo sempre ringraziarli perché non mi hanno mai messo nessun paletto. Ho provato a fare un po’ di tutto nella musica, nell’acrobatica, nell’insegnamento. Ma non mi hanno mai detto: “Nino, adesso è ora che ti metti un po’ a posto”. Si sono sempre divertiti, sia quando eravamo io e Aldo, che dopo. Soprattutto mia mamma. Sai come sono quelle mamme lì, no? Anche il mio papà, ma nelle famiglie tradizionali milanesi solo la mamma ci parlava. Il papà non parlava, lo faceva solo con la mamma. Infatti non ho mai veramente parlato con mio papà e mi dispiace. Non era disinteresse, c’era un pudore particolare da parte dei papà. Quando poi abbiamo cominciato ad avere un po’ di successo mi ricordo che, con vergogna e discrezione, mio padre osava solo dirmi: “Ma il conto corrente è a posto?”. Adesso non so se si può dire questa cosa, perché ci vuole tanto pudore, però mio papà e mia mamma a Natale mi continuavano a dare i soldi anche quando sicuramente io avevo mille volte più denaro di loro».
Giacomo: «Incredibile, questa cosa. Beh, Giova, facevano così anche con me. Mi davano la busta con i soldi, tipo paghetta, lo ritenevano un loro dovere, anche se già stavamo bene».

Aldo, racconta di quando non ti sei svegliato per la pomeridiana…
Aldo: «Per me lo spettacolo era sempre la sera, nel senso che io non sono mai andato a teatro il pomeriggio. Per cui davvero, per me è stata una rivelazione».

Ora è difficile far ridere?
Giovanni: «Io so solo che ci siamo ritrovati per degli spot, io, Aldo e Giacomo, e noi ci divertiamo sempre e riusciamo a far divertire».
Aldo: «Perché siamo tre caratteri complementari».
Giovanni: «Sì, siamo un’anima sola. Siamo tre clown che assieme formano un clown. Nonostante l’età, ci viene sempre voglia di inventare, di giocare».
Giacomo: «Di recente, nel teatro che dirigo, abbiamo fatto tre giorni di attori comici. C’erano anche gli stand-up, una volta si chiamavano monologhisti, un essere umano che parla. E basta. Manca la fantasia di immaginare delle scene, delle situazioni. Manca la completezza che c’era negli Anni 70, 80. L’attore comico parlava, però sapeva usare il corpo, la voce, suonava, scriveva scene con altri. Ora si fa tutto da soli. E basta».

APPROFONDISCI CON IL PODCAST

Nel film compaiono comici classici: Chaplin, Keaton, Stanlio e Ollio.
Aldo:
«Noi ai tempi avevamo solo quello e ce lo godevamo, assorbivamo di più. Forse siamo la generazione che ha avuto di più dal mondo dello spettacolo, decennio dopo decennio. C’erano veramente tante cose, da Stanlio e Ollio ai Mummenschanz, e le andavamo a vedere, non ci arrivavano per telefonino».

I mimi sono spariti perché c’è troppo rumore?
Giovanni: «Forse sì, sono spariti perché alcune cose sono figlie di un tempo. Nel nostro era bello esprimersi col corpo, senza la parola. Con i mezzi che ci sono adesso la parola è diventata clamorosamente importante».

I vostri personaggi più belli. Ne cito solo due. Cominciamo dai sardi…
Giovanni: «Noi abbiamo frequentato per parecchie estati la Sardegna e io sono sempre stato affascinato da quella lingua che è impossibile da ripetere, e allora cercavo di imitarla. Però siccome è molto complessa, ci si infilava dentro la fantasia, i nomi inventati con quell’accento. Ci è capitato di andare a Cagliari e qualcuno mi parlava in sardo perché pensava che fossi di lì. E io, per non deluderlo, dicevo: “No, ma io sono di Sassari, ho un altro dialetto”».

Aldo: «Lavoravo alla Sip e ho deciso di licenziarmi e rischiare. Ho scelto di farmela piacere questa vita…»

…E Tafazzi. Dirigevo l’Unità e chiesi a Sandro Veronesi di scriverne. Uno che si dava allegramente le bottigliate sugli zebedei non poteva che essere una metafora della sinistra delle scissioni infinite…
Giovanni: «Sì, alla fine non pensavamo di farlo a Mai dire gol perché era andato male a Rai3. Avevamo deciso di buttarlo. Perché, se ci pensi, faceva solo un gesto, cantava ooh ooh e si dava le bottigliate nei maroni. Era un personaggio che finiva lì».
Giacomo: «Sì però, Giova, a un certo livello, alto. Sei stato tu, Walter, a dargli vita, praticamente. E immeritata dignità, anche».

Il vostro personaggio preferito?
Aldo: «Per me Rolando. Avrei voluto fare più cose con lui. Si può dire che era il mio alter ego».
Giovanni: «Sicuramente Nico il sardo, però quello che mi faceva più divertire era il dottor Alzheimer. Lì si scatenava veramente il divertimento assoluto. Era molto corale».
Giacomo: «Io mi divertivo molto a fare Flanagan. E in generale qualsiasi vecchietto, mi piace molto».

Giovanni: «Mia madre e mio padre hanno continuato a darmi i soldi a Natale… anche quando ne avevo molti più di loro»

Il politicamente corretto?
Giovanni: «Brutto. Metà delle nostre cose non si potrebbero fare».
Giacomo: «Pensa agli animali schiacciati con la macchina…».
Giovanni: «Pensa al circo di Paolo Rossi, lui che era su un carrettino senza braccia, senza gambe e io lo pestavo. Abbiamo fatto delle cose veramente efferate. Io credo che se tu usi garbo, non sei cattivo, puoi dire quello che vuoi».
Aldo: «Io ti ricordo la scena del terremoto e della bambina. C’era un terremoto e la bambina rimaneva sotto».

Quanto sono stati importanti i Gialappi?
Giovanni: «Tantissimo, perché da loro c’era un clima che ha permesso che noi ci scatenassimo, che inventassimo tante cose, tanti personaggi. Loro sono stati una bella svolta per noi. E ci hanno anche permesso di essere l’unico trio che si è diviso per far la Tv. Con loro lavoravamo insieme, ma potevamo anche fare cose da soli».

Il momento difficile: un Sanremo andato male e il film Fuga da Reuma Park.
Giacomo: «Sanremo non avremmo mai dovuto farlo. Noi eravamo convinti da sempre che non fosse opportuno. Baudo, Fazio, tutti ci imploravano, abbiamo sempre detto di no. Un anno, chissà perché, abbiamo ceduto. Una cavolata. Ma perché era il nostro anniversario e quindi… Non è il nostro ambiente, l’abbiamo sempre pensato. Fuga da Reuma Park fu un’operazione ibrida che non voleva dire niente. E vabbè. È andata così».

Giacomo: «Le nostre erano famiglie dignitose di lavoratori ma non potevamo permetterci quasi nulla, a parte i jeans»

Oggi siete un trio o tre amici?
Giovanni: «Siamo ancora un trio. Ognuno di noi ora ha anche degli altri interessi. Però, come dice Aldo, quando siamo insieme si accende una scintilla e siamo sempre nel trio. Ci divertiamo, siamo ancora un trio».
Giacomo: «Io ho un sogno: che scatti in noi e in Massimo Venier la follia di fare il sequel de La leggenda di Al, John e Jack. Penso sarebbe bellissimo».

Tornerete a teatro?
Giovanni: «Ora è molto difficile perché il teatro era frutto di pomeriggi e pomeriggi di incontri, cazzeggi. Idee, ma soprattutto cazzeggi. Adesso questo meccanismo è difficile da ricreare, quindi è difficile rimettere insieme qualcosa. Dipende anche dalla lontananza».
Giacomo: «Ho visto in questi giorni che se ci mettiamo lì, siamo sempre uguali, però dopo 40 anni è difficile».
Aldo: «Avevamo l’adrenalina a mille, venivano fuori tante cose, c’era la fame e la voglia di cambiare. Oggi potremmo essere una brutta copia di quello che eravamo. Ognuno di noi si mette alla prova in cose diverse ma quando ci ritroviamo scopriamo che non abbiamo finito di divertirci».
Giacomo: «“Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo”. È L’Ecclesiaste. Chiudi così, viene bene».
Aldo: «Miiii che citazione!»

Nomi e soprannomi

Giovanni Storti, Esagerato
Milanese, 68 anni, sposato con Annita Casolo, ha due figlie: Clara e Mara. Soprannominato così agli inizi del Trio quando si chiamavano Galline Vecchie Fan Buon Brothers. Appassionato di danza mimica, negli Anni 80 ha insegnato acrobazia teatrale. Debutto al cinema nell’87 con Kamikazen di Salvatores.

Aldo Baglio, Dexter
Nato a Palermo ed emigrato bambino a Milano, vero nome Cataldo, ha 67 anni, è sposato dal ‘96 con l’attrice Silvana Fallisi e ha 2 figli: Caterina e Gaetano. Il soprannome arriva dal Trio agli inizi, le Galline Vecchie Fan Buon Brothers del 1991. Senza gli altri due ha partecipato a due film: Scappo a casa (2019) e Con un battito di ciglia (2024).

Giacomo Poretti, Sugar 
Nato a Villa Cortese (Mi), 69 anni, già sposato con l’attrice Marina Massironi, ora lo è con la psicoterapeuta Daniela Cristofori (59 anni). Con lei ha avuto un figlio, Emanuele (19). Il soprannome gli deriva dal personaggio del primo film del Trio, Tre uomini e una gamba (1997). Cattolico, vicino a Cl, ha avuto l’Ambrogino d’oro di Milano.

La regista: «Erano liberi di sbagliare 
e ricominciare. Oggi è diverso»

Sophie Chiarello (foto in basso) è la sapiente e delicata regista di Attitudini: nessuna, il documentario su Aldo, Giovanni e Giacomo. Li conosce a fondo, è stata loro assistente alla regia in molti film. «Sapevo della loro estrazione popolare e ho pensato fosse giusto raccontarla nel modo più diretto ed emozionante. Mi piacciono le storie delle persone. Questo documentario è un viaggio nella vita dei tre artisti e penso sia stato giusto convincerli ad andare di persona a ritrovare i luoghi e gli incontri della loro vita. Forse una delle cose che mi ha colpito di più è la libertà di sperimentare che loro hanno avuto e la possibilità di sbagliare e ricominciare. Non so se oggi esista più questa libertà. Inoltre, ripercorrendo il repertorio di quegli anni, dal circo di Paolo Rossi alla Gialappa’s, sembra evidente che oggi siamo molto meno liberi di esprimerci… Mi chiedo se ci siamo conquistati realmente un’autentica libertà di espressione».

14 novembre 2025 ( modifica il 14 novembre 2025 | 15:51)