Nelle ultime due settimane la politica estera di Donald Trump sembra rientrata nelle fila dello schieramento occidentale e atlantista. Dopo sei mesi di dichiarazioni accondiscendenti verso Vladimir Putin, finalmente il presidente americano ha iniziato a cambiare tono: ora gli aiuti all’Ucraina non sono in discussione, e le armi americane arriveranno agli alleati europei, mentre alla Russia ha dato un ultimatum di una decina di giorni per accettare un cessate il fuoco o incassare nuove sanzioni.
È una notizia incoraggiante per il mondo democratico. Soprattutto perché, dopo le prime settimane di mandato, sembrava che gli Stati Uniti andassero verso un disimpegno totale rispetto all’Ucraina e all’Europa. Per Kyjiv e per i soldati ucraini al fronte avrebbe avuto un significato nefasto.
Non è un’esagerazione dire che Trump avrebbe concesso a Putin la vittoria. Anzi, gliel’avrebbe praticamente offerta su un piatto d’argento. «Durante i negoziati guidati dagli Stati Uniti, iniziati nel febbraio 2025, Trump ha ripetutamente segnalato di essere pronto ad accettare la maggior parte delle richieste del Cremlino. Tra queste, il permesso alla Russia di mantenere il controllo sulle regioni occupate dell’Ucraina, l’esclusione dell’Ucraina dalla Nato e l’allentamento della pressione sanzionatoria su Mosca», scrive Peter Dickinson, direttore del servizio UkraineAlert dell’Atlantic Council, in un articolo pubblicato questa settimana.
Trump stava facendo a Putin una concessione dopo l’altra, esercitando al contempo pressioni sull’Ucraina affinché accettasse un accordo apertamente favorevole al Cremlino. Era arrivato a ipotizzare di concedere il riconoscimento ufficiale degli Stati Uniti per l’occupazione russa della penisola ucraina di Crimea nel 2014.
L’analisi di Peter Dickinson stavolta non si concentra sul cambio di rotta di Donald Trump, ma sulle ragioni che avrebbero spinto Putin a rimanere impassibile di fronte a tanta benevolenza da parte del presidente americano: «Il leader russo ha costantemente espresso il suo sostegno teorico agli sforzi americani per porre fine alla guerra, ma ha di fatto vanificato ogni speranza di progressi significativi verso la pace, ricorrendo a infinite tattiche dilatorie e insistendo su richieste massimaliste che avrebbero significato la fine effettiva dello Stato ucraino».
È lecito chiedersi perché, nonostante le generose condizioni offerte da Trump, Putin abbia respinto tutto al mittente. In un certo senso, l’autocrate russo ha rifiutato la vittoria in Ucraina.
Ci sono diverse possibili spiegazioni. Una di queste riguarda la situazione sul campo: l’esercito russo avanza lentamente, ma è convinto di poter logorare alla lunga quello ucraino, meno numeroso e dipendente dagli aiuti alleati.
Un’altra motivazione va individuata all’interno della Russia. Sul fronte interno, Putin ha una serie di ulteriori ragioni pratiche per preferire la dura realtà della guerra all’imprevedibilità della pace. L’economia russa è ormai totalmente convertita a economia di guerra, con massicci aumenti della spesa militare e degli indennizzi ai soldati che hanno contribuito a compensare i danni causati dalle sanzioni internazionali. Le fabbriche russe ora lavorano ventiquattro ore su ventiquattro producendo più armamenti di tutti i Paesi membri della Nato messi insieme. Così milioni di famiglie russe sono oggi molto più ricche rispetto al 2022, nonostante l’inflazione schizzata alle stelle e i danni economici subiti da tutte le aziende non legate al settore militare.
Oltre al settore della difesa, spiega ancora Peter Dickinson nel suo articolo, le esportazioni russe di petrolio e gas sono state dirottate verso nuovi mercati nel Sud del mondo. Nel frattempo, le aziende occidentali che hanno abbandonato la Russia in risposta alla guerra sono state sostituite da alternative locali, creando ampie opportunità di arricchimento per molti membri della cerchia ristretta di Putin. Un cessate il fuoco metterebbe a repentaglio l’intero modello economico, con conseguenze potenzialmente destabilizzanti per il Paese nel suo complesso.
E l’invasione su vasta scala dell’Ucraina ha prodotto dividendi simili per il regime anche dal punto di vista politico. Negli ultimi tre anni, il Cremlino ha sfruttato la guerra per completare completare la trasformazione della Russia da democrazia imperfetta – come l’India o la Turchia – a una dittatura: tutti i potenziali oppositori del regime sono stati esiliati, incarcerati o uccisi; le vestigia di un’informazione indipendente sono svanite; i diritti civili sono sempre più compressi.
«In caso di un accordo di pace, il Cremlino dovrebbe gestire centinaia di migliaia di soldati russi smobilitati, brutalizzati dalla ferocia della guerra in Ucraina», si legge nell’articolo dell’Altantic Council. «Fondamentalmente, questi uomini si sono abituati a stipendi e bonus eccezionalmente elevati, che surclassano qualsiasi aspettativa di ricevere se tornassero alle loro case di provincia in tutta la Russia. Il ritorno di così tanti veterani militari alla vita civile avrebbe conseguenze potenzialmente esplosive per la società russa, con un numero significativo di loro che probabilmente si dedicherà a crimini violenti o ad altre forme di comportamento distruttivo».
C’è ancora un altro fattore da includere nell’equazione. La determinazione di Putin nel continuare la guerra deriva soprattutto dalla sua convinzione che la sovranità ucraina rappresenti una minaccia esistenziale per la Russia, e per questo debba essere completamente eliminata. È un timore ancestrale dei leader della Russia, spaventati dalla potenziale disgregazione di un territorio così ampio a causa delle spinte indipendentiste dei popoli che l’impero vorrebbe sottomessi. Queste sono le fondamenta su cui poggia l’intera architettura criminale dell’invasione su vasta scala.
Anche gli artifici retorici di Putin riflettono questa visione del mondo. Negli ultimi vent’anni, l’autocrate ha sempre insistito sul fatto che gli ucraini siano in realtà russi, parla di «un solo popolo». Quando deve alzare i toni, definisce lo Stato ucraino un’anti-Russia artificiale che deve essere spazzato via. È per questo che l’esercito russo si produce in ripetute e orripilanti violazioni dei diritti umani nei territori occupati, è per questo che mette in campo pratiche di pulizia etnica. L’obiettivo finale è la russificazione dell’intero territorio attraverso la cancellazione dell’attuale identità nazionale.
«Se Trump e altri leader desiderano cambiare i calcoli del Cremlino e convincere Putin a porre fine alla guerra», suggerisce Dickinson nella sua tesi, «devono trasformare la realtà militare sul campo e costringere Putin a mettere in discussione la sua attuale fiducia nella vittoria russa». Tradotto, significherebbe fornire all’Ucraina le armi per difendere le sue città dai bombardamenti, riprendere l’iniziativa sul campo di battaglia e riportare la guerra in Russia. Poi sono necessarie ulteriori sanzioni per sconvolgere l’economia di guerra russa e convincere Putin che continuare l’invasione finirà per mandare il suo Paese in bancarotta.
«Soprattutto, i leader occidentali devono costringere Putin ad abbandonare le sue ambizioni imperialistiche e ad accettare finalmente l’irreversibile realtà storica di un’Ucraina indipendente», dice Dickinson in conclusione. Perché Putin ha scommesso tutto sulla sua capacità di estinguere l’indipendenza ucraina ed è pronto a tutto pur di perseguire questo obiettivo criminale. L’unico modo per fargli cambiare idea è metterlo di fronte alla minaccia di una sconfitta militare in Ucraina e alla prospettiva concreta di un nuovo collasso nazionale russo.