di
Barbara Visentin
Un documentario di Jason Priestley, Brandon in Beverly Hills, ripercorre la carriera dell’attore morto nel 2019: «Il giorno dell’ictus mi chiamò Jennie Garth (Kelly, ndr) per avvisarmi». Da oggi su Sky
Dici Luke Perry e immagini Dylan, il bello e dannato di «Beverly Hills 90210», teen-idol indimenticabile, nonché icona degli anni 90 di cui metà della popolazione femminile era innamorata, in costante cicaleccio con l’altra metà che invece faceva parte del «team Brandon».
Eppure Luke Perry era molto più di Dylan, suggerisce il documentario «I am Luke Perry», in prima visione italiana il 15 novembre alle 22.50 su Sky Documentaries, in streaming su Now e disponibile anche on demand. E a sostenerlo è proprio Jason Priestley (il Brandon Walsh della serie) che ha prodotto la pellicola, scritta e diretta da Adrian Buitenhuis, e che ne è uno dei protagonisti insieme ad altri amici e colleghi dell’attore, scomparso nel 2019 a causa di un terribile ictus, ad appena 52 anni.
Nel tentativo di offrire uno sguardo inedito sulla carriera di Perry, il documentario parte dalla follia collettiva degli anni di «Beverly Hills», ma poi va oltre, senza che vi siano contributi delle altre co-star della serie, soffermandosi invece sui ruoli che sono venuti dopo, sugli attori che hanno lavorato con lui più in là nel tempo, provando a restituire un quadro più ampio e meno blasonato della sua carriera.
Priestley, legato a Perry da una fraterna amicizia, parte infatti da questo assunto: «Quando sei un idolo dei teenager si dà per scontato che tu non sia un bravo attore, per molti hai solo un bel viso. Luke invece aveva compreso l’importanza di dimostrare al mondo che era molto più del personaggio di Dylan McKay, quello sui poster nelle camerette delle ragazzine».
Gli esordi nelle soap opera e i 216 provini
Nato in Ohio da una casalinga e da un operaio siderurgico, Luke Perry ha fin da bambino il pallino della recitazione: affascinato dai film Western (passione che gli rimarrà per tutta la vita), si trasferisce a New York e a Los Angeles, facendo lavori saltuari. I primi ruoli che ottiene sono in due soap opera, per la gioia di sua mamma, che adorava le soap e le guardava con lui dopo la scuola.
Poi, a Hollywood, Perry si getta a capofitto nei casting, assieme a frotte di altri giovani attori: «Si facevano anche 4 o 5 provini al giorno, tornavi a casa e avevi copioni su copioni», ricorda Priestley. In un’intervista che viene mostrata nel documentario, un Luke Perry agli esordi racconta di avere all’attivo a 216 provini, ma di non farsi mai scoraggiare dai rifiuti: «Ci sentiamo dire di no molte volte, ma significa no soltanto se ci credi».
La celebrità e il ruolo di Dylan che diventa una gabbia
Con il ruolo di Dylan McKey in «Beverly Hills 902010», il duro tormentato, conteso fra Brenda e Kelly, la celebrità di Luke Perry vola improvvisamente alle stelle. Il livello di fanatismo nei suoi confronti viene paragonato a quello per Elvis Presley, la sua bellezza accostata a quella di James Dean. Le fan fanno qualunque pazzia per lui, si accalcano nei luoghi dove è possibile incontrarlo, c’è chi arriva anche a chiedergli la chewing gum che sta masticando come feticcio.
Per lui è uno shock, racconta Priestley, ma soprattutto per lui il ruolo di Dylan diventa ben presto una gabbia, da cui è molto difficile liberarsi. Il collega-amico ricorda di aver affrontato spesso l’argomento con Perry: cercavano insieme di capire come avrebbero potuto voltare pagina nella loro carriera e liberarsi dai pregiudizi che (forse molto più di adesso) circondavano gli attori dei telefilm, rendendo difficile un salto sul grande schermo.
Priestley dice di non essersi stupito quando Perry ha annunciato di voler lasciare «Beverly Hills 90210», all’apice del successo, anzi dice di averlo capito. E l’ultimo episodio in cui compare Dylan (salvo poi tornarci da guest star) è stato diretto proprio da lui.
Gli altri ruoli, la scena di nudo e gli elogi di DiCaprio
Luke Perry è determinato a scrollarsi di dosso l’etichetta di teen-idol e a dimostrare di poter sfondare nel cinema. Si dedica con grande abnegazione ai ruoli che deve interpretare, come quello del campione di rodeo Lane Frost in «Otto secondi di gloria» o del rapinatore di banche in «Normal Life».
Titoli non indimenticabili, anche se la sua recitazione viene sempre elogiata, tanto che a portargli maggior fortuna sono di nuovo delle serie tv. Prende parte a vari episodi della serie carceraria Hbo «Oz», girando anche una scena di nudo frontale, e poi, dal 2017 fino alla morte, recita in «Riverdale», che dopo la sua scomparsa va avanti in suo onore.
Il suo ultimo ruolo, pur piccolo, è di grande spicco: prende parte a «C’era una volta a… Hollywood» di Quentin Tarantino che esce postumo. Ad avere parole affettuose e di grande stima verso di lui è Leonardo DiCaprio che ricorda di averlo incontrato sul set e di essere rimasto «starstruck» (abbagliato dalla sua celebrità): anche una star come lui sottolinea che tutti, negli anni 90, erano pazzi di Dylan e racconta di averlo trovato incredibilmente gentile.
La morte e la sepoltura in un abito «di funghi»
Jason Priestley inevitabilmente si commuove nel ricordare la morte di Luke Perry. Nel documentario racconta che a telefonargli per comunicargli del gravissimo ictus dell’amico, quel 27 febbraio del 2019, è stata Jennie Garth (Kelly di «Beverly Hills») e che di lì a poco i vari ex colleghi della serie hanno cominciato a chiamarsi l’un l’altro per farsi forza, in attesa di avere qualche aggiornamento.
«A quel punto stavo parlando con Jennie, stavo parlando con Ian (Ziering), stavo parlando con Brian (Austin Green), stavo parlando con Gabby (Carteris), stavo parlando con tutti», dice Priestley, a testimonianza di quanto il cast sia rimasto unito – fatto salvo probabilmente per Shannen Doherty (Brenda), con cui i rapporti furono notoriamente complicati, almeno fino all’aggravarsi delle sue condizioni di salute (l’attrice è morta il 13 luglio 2024 dopo un lungo cancro).
Perry è morto il 4 marzo 2019, dopo un altro ictus. Ha lasciato due figli, Jack e Sophie, avuti con la ex moglie Rachel Minnie Sharp, nati rispettivamente nel 1997 e nel 2000. Una curiosità extra documentario: proprio la figlia Sophie, qualche mese dopo la sua scomparsa, ha raccontato che il padre è stato seppellito in un abito speciale, biodegradabile, fatto di funghi.
Una tuta funeraria di un’azienda chiamata Coeio (del prezzo di 1.500 dollari) che Perry aveva scoperto mentre era in vita e in cui gli sarebbe piaciuto essere seppellito. L’abito, in cotone organico con il cappuccio, contiene funghi e altri microorganismi che hanno il compito di accelerare la decomposizione al tempo stesso di neutralizzare le tossine del corpo, alleggerendo l’impatto sull’ambiente. «È stato seppellito in uno di questi abiti, uno dei suoi ultimi desideri. Sono una cosa bellissima per questo bellissimo pianeta e volevo condividerla con voi», ha fatto sapere la figlia.
15 novembre 2025 ( modifica il 15 novembre 2025 | 12:00)
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