di
Piero Di Domenico

Giangilberto Monti nel libro «Zelig Republic» ripercorre la storia del cabaret più famoso d’Italia: «Si è passati dall’arte al mercato dell’arte. Negli anni della Milano da bere quei comici leggevano l’assurdo della quotidianità»

Da piccolo locale milanese di periferia, nato nel 1986 dopo la chiusura del mitico Derby, a marchio doc della comicità italiana approdata sulle tv Mediaset.

Quarant’anni ripercorsi nel libro Zelig Republic: storia del cabaret più famoso d’Italia (Aliberti) dal 73enne cantautore milanese Giangilberto Monti. Il libro verrà presentato la sera del 15 novembre alle 21 al Teatro del Navile di via Marescalchi 2/b. Nella prefazione Giobbe Covatta ricorda un’epoca in cui gli aspiranti comici si muovevano su una Simca 1000 o una 128 coupé, in cui non si guadagnava un accidente, ma almeno «ci si divertiva come pazzi».



















































Monti, come è nata la storia dello Zelig?
«Da una cena tra amici della meglio gioventù di allora, con un passato simile, a rincorrere un pallone e molti sogni. E il desiderio di un futuro che tutti speravamo diverso da quello che si stava vivendo. Il nome venne in mente a Enzo Gentile, un giornalista che viveva la musica con grande curiosità e passione».

Lo Zelig era erede del Derby?
«Il locale nasceva in un modo e in un mondo diverso da quello che ruotava intorno al Derby. Si respirava arte, si discuteva di quello che ci stava accadendo e lo si riportava su un piccolo palcoscenico che sembrava il salotto di casa tua. Era sperimentazione allo stato puro, non esistevano mediazioni. Allo Zelig la droga imperante era il biliardino, oltre ai panini e qualche birra».

Cosa avevano di speciale comici come Paolo Rossi, Giobbe Covatta o Aldo Giovanni e Giacomo?
«Eravamo nel bel mezzo della Milano da bere, imperava la sottocultura dell’intrattenimento leggerissimo, della ricchezza come unica forma di riscatto sociale. Le tv commerciali non erano poi tutte uguali, ma quelle targate Berlusconi miravano a questo.Quei comici leggevano l’assurdo della quotidianità e la mostravano senza trucchi, in poche parole o con un gesto mimico. Era un sorriso cattivo ma non violento, non c’era volgarità. Oppure, come direbbe un poeta di passaggio, quando piove per non bagnarsi bisogna passare tra una goccia e l’altra».

Dall’esperienza dello Zelig sono nate iniziative editoriali, Smemoranda, i libri da milioni di copie, la trasmissione tv. Come è stato gestito questo salto?
«Sono passati dall’arte al mercato dell’arte, che non è un bell’atterraggio. I comici hanno continuato a fare i comici, ma con molta più fatica, e poi sapevano volare. Chi li gestiva è partito su un aliante, pensava di saper guidare un jet e si è ritrovato su un razzo. Sono girati troppi soldi e troppa gente ha voluto guadagnarci sopra. Chi ce l’ha fatta appena ha potuto se n’è andato».

Oggi che fine ha fatto lo Zelig e cosa ne resta?
«Il locale originale l’hanno chiuso e poi trasformato in un posto da aperitivi. I fondatori si sono trasferiti 50 metri più in là, nello stesso cortile. Oggi si chiama Area Zelig e Giancarlo Bozzo, il primo gestore di quella pedana serale, continua a lavorarci e a inseguire il sogno. Quanto a quello che resta, posso solo dire che allora il problema per me era il lunedì, quando il locale chiudeva. Così ci si ritrovava nella pizzeria che c’era appena a lato. Quarant’anni fa le pizze le infornavano dei ragazzi napoletani, oggi lo fanno dei ragazzi arabi. Però la pizzeria c’è ancora».


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15 novembre 2025 ( modifica il 15 novembre 2025 | 14:31)