Come cambieranno i salari nell’Unione europea e, in particolare, nel nostro Paese? In materia, l’11 novembre scorso la Corte di Giustizia Ue ha emesso un’attesissima sentenza nella causa C-19/23, avviata dalla Danimarca – e sostenuta dalla Svezia – contro Parlamento e Consiglio dell’Unione.

A riprova della delicatezza della questione stipendi e di chi abbia competenza effettiva a disciplinare sull’argomento, la decisione pone fine a un contenzioso focalizzato sul ruolo della nota direttiva 2022/2041 sui salari minimi adeguati. Questa era stata approvata alcuni anni fa nell’intenzione di migliorare le condizioni di vita e lavoro dei cittadini europei.

La Danimarca chiedeva l’annullamento totale del testo, sostenendo che essa violasse i Trattati europei, perché interferiva proprio nell’individuazione delle giuste retribuzioni. La direttiva entrava in un perimetro di competenze estranee ai poteri delle istituzioni comunitarie. Ma la Corte ha confermato la validità generale dell’atto, annullando soltanto alcune sue piccole parti.

Vediamo perché e che cosa cambia in concreto per i lavoratori, dopo la sentenza in oggetto.

Chi decide le retribuzioni

Nel dettaglio, per lo Stato danese, la direttiva europea sarebbe entrata in un ambito “proibito” ai sensi dell’art. 153, paragrafo 5, del Trattato sul funzionamento dell’Ue (TFUE). Ciò esclude espressamente dall’intervento legislativo dell’Unione retribuzione, diritto di associazione e contrattazione collettiva.

Non è un caso che proprio questo Paese nordico abbia contestato la validità della direttiva: come l’Italia, la Danimarca non ha un salario minimo legale e affida la determinazione dei salari alla contrattazione collettiva. Per questo, innanzi alla Corte con sede in Lussemburgo, sosteneva che l’atto dell’Unione minacciasse direttamente il proprio modello di funzionamento delle relazioni industriali.

Ma, come accennato in apertura, i giudici hanno confermato la validità complessiva della direttiva. È stata respinta la richiesta di annullamento totale. Infatti, in base a un’attenta lettura e interpretazione delle regole dei Trattati europei, le istituzioni avevano effettivamente il potere di adottare il testo, poiché – secondo l’orientamento della Corte – lo scopo dell’atto impugnato non era fissare i livelli del salario, ma:

  • garantire condizioni di lavoro dignitose;
  • promuovere salari minimi adeguati;
  • rafforzare la contrattazione collettiva;
  • fornire un quadro comune di riferimento, per i Paesi che possiedono un salario minimo legale.

Per questo, concludono i giudici, l’Unione ha agito entro i limiti delle proprie competenze.

Direttiva salari minimi: perché non è stata bocciata

La parte più delicata della decisione in oggetto riguarda l’art. 5 della direttiva 2022/2041, che disciplina le modalità con cui gli Stati membri possono individuare e aggiornare i salari minimi legali. Ebbene, la Corte ha chiaramente distinto tra regole che non interferiscono direttamente nella determinazione delle retribuzioni – e quindi sono valide – e disposizioni che invece lo fanno, violando così i principi fondamentali Ue.

In sintesi, l’impianto generale della direttiva resta intatto perché la Corte europea ha salvato le disposizioni che:

  • chiedono agli Stati di favorire la contrattazione collettiva, soprattutto se la copertura è al di sotto dell’80%. In sostanza, questa soglia non va letta come un obbligo di risultato, ma come un indicatore che impone di elaborare un piano d’azione interno;
  • indicano parametri internazionalmente utilizzati (es. 60% del salario mediano) per fissare il salario minimo, ma esclusivamente come esempi, non come obblighi gravanti sugli Stati membri.

In estrema sintesi, quindi, per i giudici la direttiva Ue lascia un ampio margine agli Stati, rinviando – di fatto – alle prassi nazionali e al ruolo primario delle parti sociali.

L’annullamento dell’articolo 5

Le sole interferenze con la legislazione interna dei singoli Stati membri sono state individuate dalla Corte in alcune porzioni del citato art. 5, perché contenenti criteri rigidi e invasivi per stabilire i salari minimi legali.

In particolare, i giudici comunitari hanno annullato le norme che:

  • imponevano – agli Stati con salario minimo – di utilizzare almeno quattro criteri obbligatori per la loro individuazione, ossia potere d’acquisto e costo della vita, livello generale dei salari e loro distribuzione, tasso di crescita dei salari e livelli e andamento nazionale della produttività. Per la Corte, infatti, imporre questi paletti significava entrare direttamente nel merito della determinazione salariale, cosa vietata dai Trattati.
  • vietavano la riduzione dei salari minimi legali. Infatti, con la cosiddetta clausola “di non regresso” la direttiva Ue prevedeva che, nei sistemi nazionali con indicizzazione automatica, il meccanismo non potesse comportare diminuzioni dello stipendio minimo esistente. Proprio questo divieto si imponeva “dall’alto” sul livello delle retribuzioni, scontrandosi con le regole generali del Trattato.

La direttiva resta in piedi, ma alleggerita delle parti che eccedevano poteri e competenze dell’Unione: in sostanza, un compromesso che salvaguarda sia il mercato del lavoro europeo, sia le specificità normative e organizzative dei singoli Paesi.

Che cosa cambia

Al di là degli aspetti tecnico-giuridici, pur interessanti perché riguardano direttamente la legislazione nazionale in materia di lavoro, per i singoli Stati membri – Italia compresa – la pronuncia dello scorso 11 novembre, al termine della causa C-19/23, rappresenta un chiaro punto di equilibrio tra integrazione europea e autonomia nazionale.

Da un lato, infatti, segna il riconoscimento della necessità di standard comuni minimi a tutela dei lavoratori. Dall’altro, la sentenza conferma che la definizione dettagliata dei salari resta una prerogativa interna, da esercitare secondo modelli e prassi organizzative di ogni ordinamento.

Ecco perché la decisione in oggetto acquista particolare importanza, proprio in quei Paesi a forte tradizione di contrattazione collettiva e autonomia delle parti sociali, come Danimarca o Italia. Gli Stati dell’Unione potranno così stabilire liberamente i criteri per determinare l’adeguatezza del salario minimo legale e il meccanismo di adeguamento automatico potrà anche portare a riduzioni dello stipendio, se previsto dalla legge nazionale.

Insomma, dopo questa sentenza, non c’è alcun criterio vincolante imposto dall’alto, perché la direttiva richiede agli Stati di garantire “procedure” per la definizione dei salari minimi adeguati, ma non può intervenire o interferire sui livelli, sui criteri o su aspetti specifici. La direttiva resta valida, ma perde parte del suo “peso normativo” e non intacca la sovranità nazionale in materia.

Concludendo, per lavoratori e aziende la novità è relativa, posto che le responsabilità in merito all’individuazione di un salario giusto, rimangono in capo agli stessi soggetti. La Corte, però, introduce un principio interpretativo di grande importanza: la riduzione di competenza dell’Ue sulla retribuzione non impedisce ogni intervento che – in qualche modo – tocchi il tema dei salari e le condizioni di lavoro. Con una direttiva riveduta e corretta, spetterà ora a Governo e parti sociali aprire un tavolo per il salario minimo legale. In Italia al momento la situazione è in stallo, ma a livello europeo c’è chi, come la Germania, si è recentemente mosso aumentando l’importo dello stipendio minimo.