«Non sono preoccupata per il futuro, ho fatto un patto con il Padre Eterno: chiamami quando vuoi, ma non togliermi la testa». Classe 1937, professoressa emerita al Politecnico di Milano, prima donna a laurearsi in Ingegneria aeronautica in Italia, Amalia Ercoli Finzi è una delle scienziate italiane più autorevoli nel campo dell’ingegneria aerospaziale. Portano il suo nome un asteroide e il gemello terrestre del rover che toccherà il suolo di Marte nel 2030. Con la missione Rosetta ha dato un contributo fondamentale allo studio delle comete, progettando la trivella che ha trapanato il suolo del corpo celeste.
Ha avuto una vita straordinaria. Qual è stato il momento più bello?
«Quando è nato il mio primo figlio, ma anche l’arrivo della femmina dopo quattro maschi. E devo dire che anche oggi trovo qualcosa di eccezionale nel legame che c’è tra madre e figlia, quando vanno d’accordo».
E dal punto di vista professionale invece?
«Quando si è svegliato il mio strumento che stava viaggiando verso la cometa. Era stato in ibernazione due anni. Se non fossimo riusciti a riattivarlo, la missione sarebbe fallita. Ricordo il momento esatto: ero in viaggio verso Tolosa e mandavo il messaggio all’antenna dello spazio profondo in Australia che lo rispediva alla sonda Rosetta, a 500 milioni di chilometri dalla Terra. Quando ha risposto ready (sono pronto) mi sono messa a piangere. Ce l’avevamo fatta».
E il momento più difficile?
«Il primo esame per diventare assistente. Ero laureata da poco, avevo finito l’università in cinque anni, condizione imposta da mio padre per frequentare Ingegneria aeronautica, e avevo una borsa di studio. Il professore era molto preoccupato perché l’ambiente era duro, tutto maschile. Un docente anziano mi disse: “Faccia concorrere anche suo marito, ha più probabilità di vincere”. E invece l’esame l’ho superato. È stato complicato anche quando ho fatto il direttore del Dipartimento di Ingegneria Aerospaziale: ero stata votata dai tecnici e dalle segretarie, non dai miei colleghi. I miei pari mi hanno messo i bastoni fra le ruote. Però sono sopravvissuta».
Qual è l’errore che le ha insegnato di più?
«Più che un errore è un rimpianto. Mi fu offerta l’opportunità di andare in Somalia, a tenere lo stesso corso che insegnavo al Politecnico di Milano. Avevo tre bambini piccoli, non me la sono sentita. Ho pensato che sarebbe stato un rischio. Oggi prenderei una brava tata e partirei».
La sua famiglia è sempre venuta prima di tutto?
«Assolutamente. Una volta ho spostato una riunione internazionale per non perdere l’appuntamento con un professore. I miei cinque figli e i miei sette nipoti sono il mio bene più prezioso».
Il futuro la spaventa?
«Sono ottimista. Avremmo bisogno di un nuovo Gandhi e credo che dovrebbe essere donna. Possiamo portare un punto di vista diverso e una speranza di pace».
E dell’intelligenza artificiale che cosa pensa?
«Ho grande fiducia, deve essere trattata come un servitore fedele. Ha delle risorse enormi e sa gestire benissimo i dati. Non dobbiamo chiederle più di questo: per esempio dei giudizi etici. Non va guardata con sospetto, ma solo tenuta sotto controllo».