Nella sua apparente ricerca di sintesi e sfumature di normalità, quindi, The Smashing Machine rivela tutto il suo complesso distillato di artificialità, che vale tanto a un livello strutturale (il film non è un semplice “trancio” di biopic, ma uno strano calco finzionale di un documentario che John Hyams girò nel 2002 su Kerr) quanto nel costrutto di mascolinità stratificata che è il suo protagonista, impegnato anche a performare una stoica resistenza al dolore e alla dipendenza dagli oppiacei, e perfino a interpretare il ruolo di compagno per la fidanzata Dawn, nonostante sia chiaro quanto preferisca essere lasciato in pace nella preparazione dei tornei.
Proprio la natura infiammabile delle litigate con Dawn è l’elemento che rischia di far esplodere la serenità pressurizzata di Kerr. Più della sconfitta sul ring – che pur inimmaginabile alla fine arriverà – e più delle beghe professionali, siano esse una negoziazione sul contratto o un’ingiustizia arbitrale. In questi momenti di conflitto domestico tra i due si può apprezzare una dinamica di potere e una sottile vibrazione psicologica che si allontanano dagli stereotipi classici del lottatore animalesco che si abbandona alla violenza sulla consorte inerme. Un po’ lo si deve alla caratterizzazione della donna (è lei ad avere le reazioni più estreme nella coppia), e molto alla studiata consapevolezza affettiva di Kerr/Johnson, sempre presente a se stesso, razionale e difensivo nell’uso del gergo da terapia. Kerr è quasi remissivo, perennemente alla ricerca di un’idea di uomo da abitare, che possa tener dentro di sé quest’abbondanza di emozioni.
Solo una volta lo si vede abbandonarsi a un gesto violento (un pugno che demolisce una porta) che Safdie inquadra in modo tale da renderlo spazialmente incongruo e quasi assurdo. È l’eccezione che segnala al pubblico quanto questo fosse ciò che attendeva sin dall’inizio, l’accumulo di tensione e aspettativa su cosa quel corpo e quell’attività abitualmente sottintende.
E invece questa decostruzione della dinamica di genere prende un’altra strada. Se il rapporto col femminile è uno spazio di costruzione e di astrazione, il romanticismo più spontaneo lo si trova invece in un rapporto doppio con il sé – Mark e un altro Mark – attraverso la figura di Mark Coleman, compare/spalla/rivale di una vita. È anche questa una elucubrazione tipica dei Safdie (una figura reale dell’epoca interpretata da un combattente reale dell’oggi, Ryan Bader, in qualità di attore non professionista) ma nelle scene tra i due uomini il film trova il suo cuore più rilassato e la sua intimità più autentica, potendo finalmente deporre le armi e identificare quella verità che tanto sembrava cercare.