di
Elena Meli
Un’analisi fatta sulla richiesta di «secondi interventi» ha messo in luce che in diversi casi il ricorso alla chirurgia non era giustificato. L’intervento è necessario solo per chi ha grosse deformità della colonna dovute a scoliosi o a traumi
La chirurgia dovrebbe essere sempre di più l’ultima spiaggia se si hanno problemi alla schiena, perché i casi che hanno bisogno del bisturi sono pochi e se l’indicazione non è corretta il rischio di dover intervenire più di una volta è concreto.
Lo dimostrano i dati raccolti negli anni da Roberto Bassani, responsabile dell’unità di Chirurgia vertebrale dell’Irccs Galeazzi Sant’Ambrogio di Milano, un centro ad alta specializzazione, in cui ogni anno vengono operati oltre mille pazienti, e Bassani chiedendosi quale fosse il loro profilo si è accorto che «nel 70% dei casi si tratta di revisioni, ovvero secondi interventi dopo una prima operazione che non aveva risolto il problema».
«Indagando meglio — puntualizza l’esperto— abbiamo osservato che la maggior parte di questi pazienti era stata operata ma senza che ci fosse la corretta indicazione a farlo, oppure non erano stati inseriti in un percorso conservativo adeguato. Inoltre, abbiamo verificato che il 52% andava incontro a complicanze; a parità di procedura, l’applicazione di un protocollo per cui il chirurgo si confronta con altri specialisti di un team multidisciplinare, come gli psicologi o i fisioterapisti, non solo dimezza il numero di interventi ma fa sì che le complicanze, per chi deve operarsi, crollino al 16%. Bisogna quindi davvero operare meno e meglio, solo quando serve».
Quali pazienti ne hanno veramente bisogno
Nei pazienti non avviati alla chirurgia ma a trattamenti conservativi come la fisioterapia i risultati sono ugualmente soddisfacenti, ciò che conta è riservare il bisturi solo ai casi in cui occorre davvero e scegliere anche le tecniche meno invasive possibili.
«I pazienti con problemi alla schiena per i quali l’intervento chirurgico è necessario sono quelli con grosse deformità della colonna dovute alla scoliosi oppure a traumi», precisa Bassani. «Anche in questi casi però la chirurgia va eseguita solo dopo un’attenta pianificazione e personalizzazione, che oggi la tecnologia consente e che è fondamentale per non dover tornare sui propri passi e intervenire di nuovo, con maggior disagio per i pazienti, un aggravio di spesa sanitaria e risultati inevitabilmente peggiori».
Che cosa fare quando si scopre di avere un’ernia del disco
Molte persone con mal di schiena spesso scoprono di avere un’ernia del disco: fra una vertebra e l’altra ci sono dischi intervertebrali con un nucleo polposo interno che funzionano come ammortizzatori e, quando degenerano, vengono spinti verso l’esterno fino a creare una protrusione o essere addirittura «espulsi». Quando il disco fuoriesce dalla sua sede può toccare le radici dei nervi che escono dal midollo spinale e quindi provocare dolore; di solito il dolore da ernia è ben riconoscibile, perché è acuto e tende a irradiarsi verso la gamba portando anche a sintomi come la perdita di forza o sensibilità per colpa della pressione dell’ernia sul nervo interessato. Ma se si scopre di avere un’ernia del disco, facendo esami come la risonanza magnetica, si deve per forza operare? «No, si interviene solo sulle ernie che non rispondono ai protocolli di intervento che prevedono farmaci, fisioterapia e infiltrazioni», risponde Bassani. «L’80-85% delle ernie si riassorbe da solo con queste cure e soprattutto il tempo, che è spesso la migliore medicina; fanno eccezione i casi in cui c’è un danno neurologico evidente oltre al dolore, ovvero si è persa sensibilità o funzione motoria. Ma parliamo dell’1-2% delle ernie».
Rivolgersi a centri esperti
Per essere certi di ricevere la terapia giusta, Bassani consiglia di rivolgersi a centri esperti in cui non ci sia solo il chirurgo ma un team di medici diversi. «Una gestione multidisciplinare non significa chiedere il parere di tre diversi chirurghi, ma far esaminare il caso da professionisti con competenze differenti per essere valutati al meglio», osserva.
«Inoltre è bene diffidare di chi propone l’intervento come soluzione unica, immediata e necessaria, senza offrire opzioni alternative: è giusto pretendere di essere informati, chiedere se esistono altre possibilità, se l’operazione è davvero indispensabile e quali sono i rischi che si corrono facendola o meno. I casi in cui il bisturi è l’unica strada percorribile sono davvero pochi», conclude Bassani.
A volte la causa del dolore è più «bassa»
Chi ha il mal di schiena e viene indirizzato alla fisioterapia sa di dover rinforzare il cosiddetto «core» (muscoli addominali e paravertebrali): una sorta di busto naturale che sostiene la colonna e la stabilizza, riducendo il rischio di dolori. In molti casi tuttavia anche il pavimento pelvico ha un ruolo importante, come spiega Bassani: «Nel 96% delle donne con mal di schiena cronico e in quasi la metà degli uomini questi muscoli, che sono la parte inferiore del “bustino” muscolare della colonna, sono deboli e ci sono perciò anche sintomi urinari come piccole perdite o il bisogno di andare spesso in bagno. Per pudore non se ne parla e non si chiede, ma le disfunzioni del pavimento pelvico oltre a dare disturbi urinari accentuano il mal di schiena: in queste persone una riabilitazione specifica, con esercizi o stimolazioni con elettrodi, porta a un beneficio netto e può anche scongiurare la chirurgia. È un problema evidente nelle donne che soprattutto dopo le gravidanze e con la menopausa possono andare incontro a un’alterazione del pavimento pelvico che poi concorre al mal di schiena: tenerne conto e fare una fisioterapia specifica può fare la differenza».
Ora, quando si deve si può essere «mininvasivi»
«La chirurgia oggi deve essere mininvasiva e ci sono molte possibilità in questo senso che consentono di trattare un’ernia, per esempio, attraverso incisioni minime in endoscopia, per un recupero rapido e un danno minimo ai tessuti», dice Roberto Bassani dell’unità di Chirurgia Vertebrale dell’Irccs Galeazzi Sant’Ambrogio di Milano, che ha messo a punto una tecnica mininvasiva per trattare il mal di schiena che non risponde agli altri trattamenti. Il metodo prevede di accedere alla colonna dalla parte anteriore del corpo anziché dalla schiena, con un’incisione di circa 2,5 centimetri nei pressi dell’ombelico che consente di trattare più dischi degenerati, comprese le ernie molto grosse, e di applicare protesi discali. I vantaggi sono una minore perdita di sangue, un minor danno ai tessuti e ai nervi e anche un minor tempo necessario per la chirurgia rispetto all’accesso posteriore standard.
15 novembre 2025
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