Tour de Banyuwangi Ijen, in Indonesia, lunedì scorso. Seconda tappa, Alaspurwo-Banyuwangi, di 158,8 km. Primo, in volata, Francesco Carollo, 25 anni fra 17 giorni, comasco, dello Swatt Club. Un Carollo vincente. Quasi una contraddizione, un ossimoro, un paradosso. Perché finora Carollo era simbolo, sinonimo, emblema dell’ultimo. L’ultimo degli ultimi. L’ultimissimo. Più ultimo di Luigi Malabrocca.

Era il Giro d’Italia del 1949. Tre giorni prima della partenza, mentre lavorava sul tetto di una casa popolare, gli fu recapitato un telegramma: doveva presentarsi il più presto possibile a Palermo per sostituire l’influenzato Fiorenzo Magni, capitano della Wilier Triestina. Tornò a casa, riempì la valigia di cartone avuta dalla squadra, infilandoci anche – pare – un paio di bottiglie di Merlot, saltò sul primo treno e in un paio di giorni riuscì a raggiungere la Sicilia e unirsi a Cottur e Martini, Bresci e Maggini, Ausenda e Feruglio.

Aveva 25 anni, Carollo. Sante di nome, ma tutti in paese – Montecchio Precalcino, nel Vicentino – lo chiamavano Santo. E Càrolo di cognome, ma per un errore di trascrizione divenuto Caròllo. Secondo di quattro figli, infanzia poverissima, manovale e muratore, solo un paio di anni prima si era innamorato della bicicletta, ottenuto un prestito da un amico se n’era comprata una, un solo anno da dilettante, una vittoria prestigiosa, nella Schio-Ossario del Pasubio, e subito, ora o mai più, il passaggio al professionismo. Le prime corse gli servirono per prendere confidenza alle giuste distanze. Alla Milano-Sanremo, 78° a quasi 22 minuti da Fausto Coppi. Al Giro del Piemonte gli andò peggio: dopo due forature, rimasto con un solo palmer, accettò una ruota da uno sportivo lungo il percorso, ma il regolamento lo vietava, la pena era una squalifica di tre mesi, e Sante Carollo (io lo chiamo così) riprese in mano malta e cazzuola, limitandosi a qualche sgambata serale in bicicletta. Fino a quel telegramma.

La prima tappa, la Palermo-Catania, Carollo giunse ultimo, a oltre un’ora dal vincitore Mario Fazio e a trequarti d’ora da Luigi Malabrocca. “Se il gruppo superava i 30 all’ora, perdevo contatto e procedeva staccato da tutti – ne scriveva Benito Mazzi nell’irrinunciabile “Coppi, Bartali, Carollo e Malabrocca” (Ediciclo, del 2005) -. Quanto pedalare da solo ho fatto. Fu l’amor proprio a tenermi su, a farmi stringere i denti. E mi fu d’aiuto con le sue cure, con la sua vicinanza, il dottor Campi, il medico del Giro. Cominciai a pedalare un po’ da cristiano dopo sei, sette tappe, quando il mio nome era popolare perché abbinato all’ultima posizione, ai grandi distacchi”. Malabrocca, che aveva inventato la maglia nera conquistando l’ultimo posto nel Giro del 1946 (a 4.09’44” da Gino Bartali) e bissando l’impresa nel Giro del 1947 (a 5.52’20” da Coppi), saltando l’edizione del 1948 per manifesta superiorità (nell’inferiorità), era convinto che il suo rivale si sarebbe ritirato. Quando capì che invece avrebbe insistito fino al traguardo finale di Milano, Luisìn cominciò a preoccuparsi e ingegnarsi per staccarlo da dietro. Due straordinari fondisti. Due meravigliosi estremisti. Due storici rivoluzionari. Due formidabili… finisseur.

Se Malabrocca era tenace nella ricerca della solitudine in coda al gruppo, cioè indietro, Carollo talvolta cedeva alla tentazione di uno scatto – dal suo punto di vista – dalla parte sbagliata, cioè davanti. Come nella Genova-Sanremo, quando in una fase di stanca andò addirittura in fuga, accumulò un notevole vantaggio sul gruppo e arrivò perfino a sperare di vincere la tappa. Come nella Sanremo-Cuneo, sul Col di Nava, quando volle dimostrare di avere qualità di scalatore, ma – disgraziatamente per Malabrocca – fu fermato dall’ammiraglia per attendere e aiutare Martini vittima di una foratura. Come in altre tappe quando i suoi tifosi gli scrivevano o lo imploravano di mollare l’ultima posizione, promettendogli “notti romantiche con splendide ragazze” e inviandogli “fotografie di provocanti biondone in costume adamitico”. Strada facendo, Carollo non perse di vista l’ultimo posto e Malabrocca, nonostante strategie e stratagemmi (il suo pezzo forte: nascondersi e aspettare), infine fu costretto a soccombere. Fenomenale ultimo Carollo a 9.57’07” da Coppi.

La carriera di Carollo fu brevissima: durò solo quell’anno. Riuscì a dare segnali delle sue doti in salita, aggiudicandosi il Gran premio della montagna della Decima Nazionale di La Spezia (e sul bastione di Fosdinovo aveva preceduto addirittura Sandrino Carrea, il gregarione di Coppi). Non riconfermato dalla Wilier, non ingaggiato dalla Bianchi (pare che il Campionissimo lo volesse con sé), Carollo vendette il Mosquito (un motorino a pedali) per pagarsi il viaggio in Svizzera e lavorare da muratore con il padre.

Così l’altro giorno, in Indonesia, quel primo Carollo suonava strano, sorprendente, inedito. E molto poetico.