Dopo una settimana trascorsa in Giappone si rivaluta il ritmo delle nostre città. Tokyo è una metropoli che sembra non finire mai. Duemila chilometri di binari, più di mille stazioni, case senza indirizzo e ristoranti senza nome, ad ogni piano degli edifici (da – 2 a + 8). Bar così piccoli da essere pieni con sei avventori e incroci da mille persone pronte a scattare al verde. Sul volo di rientro ripenso al film che lì sta sbancando il botteghino. Kokuho, tre ore di dramma ambientato nel mondo del teatro kabuki. Per quanto ancora popolare, questa forma di rappresentazione estremamente codificata è quanto di più lontano si possa immaginare dalla vita in un Paese che pare il laboratorio del futuro. Forse è proprio questo gap ad averne fatto il live action di maggior successo di tutti i tempi. Come a dire: il cinema del XXI secolo gioca le sue carte migliori quando smette di rincorrere l’attualità.

Il successo di Kokuho (in Italia sarà distribuito da Tucker) ricorda quello di Le città di pianura di Francesco Sossai, un piccolo film che, senza un cast di rilievo o un soggetto d’attualità, forte del passaparola, settimana dopo settimana ha superato il milione di euro di incasso, mettendosi dietro produzioni più ricche e meglio sostenute dalla pubblicità. D’altra parte, risulta difficile promuovere questo film che non ha una vera storia, se non il vagabondare a bordo di una Jaguar di due uomini di mezza età, sgangherati nei vestiti e ripiegati a rimpiangere un passato neppure tanto glorioso. Mentre sorvoliamo l’Alaska – non potendo transitare sui cieli russi, la rotta prevede di passare sopra il Polo Nord – mi domando cosa ci sia di seducente in questi due bevitori incalliti, capaci di ogni bugia pur di aggiungere un bicchiere alla loro giornata. Quasi uno sberleffo alla moda del bere consapevole o dei vini naturali, quelli che non fanno venire il mal di testa. Dal finestrino lo sguardo si blocca su una lunga distesa bianca. Osservare per un minuto questo paesaggio uniforme funziona come un antidoto al flusso di immagini a cui ogni giorno siamo sottoposti. Incoerenti e ripetitive sono la nostra realtà. Al cinema si ricerca qualcosa d’altro. Altri tipi di storie. Altri ritmi. Il declino dei film di supereroi risponde non solo alla fatica di riascoltare le stesse storie ma anche a una inconscia presa di distanza da tutto ciò che è magniloquente o frenetico. Forse il silenzio del kabuki o le terre piatte del Triveneto ad alto tasso alcolico non sono poi così inattuali.

Siamo ormai in vista dell’Europa. È curioso che sia dovuto andare all’estremo est del pianeta per parlare di un film che cattura qualcosa di tipicamente nazionale. L’Italia resta un paese di tante province, ognuna fiera della propria identità. Se Il Sorpasso univa idealmente un’Italia in (ri)costruzione, Le terre di pianura è un road-movie a scarto ridotto. Un viaggio di deriva che rifiuta attori dai volti riconoscibili e i luoghi simboli del Veneto per farci scoprire un altro tipo di paesaggio, più intimo. Non siamo molto distanti dalla riscoperta turistica dei piccoli centri o dal successo delle cronache locali nei giornali on-line. Quasi ogni inquadratura del film svela l’attaccamento a una terra che da agricola è diventata post-industriale senza quasi accorgersene. Un paesaggio umano un po’ desolato, come la mattina dopo una grande sbornia.

Al festival di Tokyo Chloe Zhao – una regista che sui nuovi nomadi ha realizzato un film che nella sua quietezza le ha fatto vincere un Oscar – ha parlato del dolore come elemento che unisce le persone, forse anche più della gioia. È questa una nota che Sossai sa intonare in modo personale e convincente, ricollegandosi a una ricca tradizione. Dal neorealismo alla grande commedia, il cinema italiano ha costruito la sua fortuna sulla figura dello sconfitto. L’America può continuare a celebrare il self-made man, da noi colpisce di più la parabola di chi è caduto e magari si rialza a fatica. Il grande industriale, che parla con lo stesso accento dei suoi operai, resiste nel film di Sossai non più di due minuti: non ci interessa sapere dove andrà con il suo elicottero. Ci piace restare con l’operaio Primo che, nonostante il Rolex Daytona avuto in regalo, riempie le sue giornate di slot machine. Nell’imperversare dell’ex operaio sulla macchinetta, quasi si trovasse in una nuova infernale catena di montaggio, si sente quel dolore sordo, che attraversa luoghi e personaggi arrivando a fare di questo film molto locale un racconto capace di unire tutte le province dimenticate d’Italia.