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Elisabetta Andreis e Gianni Santucci

Le truffe online sono aumentate di oltre il 30% nell’ultimo anno. A Milano gli uffici che indagano sulle frodi digitali non riescono più a contenere i fascicoli: professionisti, pensionati, scrittori, medici finiscono nelle stesse trappole

I fascicoli traboccano dai tavoli. Nomi, iban, profili, bonifici in sequenza. Tracce di vite (e famiglie) rovinate. Negli uffici milanesi che si occupano di frodi digitali non c’è più spazio nemmeno per i faldoni. Ogni giorno arrivano nuove denunce. Dietro ogni cartella, una storia: un pensionato, un professionista, una scrittrice, un medico. Tutti truffati allo stesso modo. «Come vittime non scelgono gli ingenui — spiega l’avvocato Marco Tullio Giordano, del “42 Law firm”, che da anni si concentra su questi temi — ma persone in gamba, brillanti nel loro lavoro, con carriere di livello. Persone che hanno studiato e in passato hanno già investito. Ma che non sono nativi digitali». Giordano assiste decine di vittime. «Persone normali finite in un gioco che non conoscevano». Professionisti che si sono fidati di voci gentili, grafici in crescita, piattaforme impeccabili. Le «vittime perfette» hanno un alto livello economico, sociale, culturale. Poi crollano: «Hanno paura di ammetterlo. Almeno la metà non denuncia. C’è la vergogna. E il rimorso di aver creduto in qualcosa che prometteva guadagni facili». 

Gli schemi sono sempre gli stessi. Cambiano i nomi, non la logica. Tutto comincia con l’approccio. Spesso l’esca gira sui social. Un messaggio, una chat, un video sponsorizzato. Di solito a gestire i primi approcci sono call center all’estero (Cipro, Dubai, paesi asiatici): dove lavorano persone che qualcuno ormai chiama schiavi delle scam cities, le «città» dove s’addensano i centralini delle truffe globali. Adescatori professionali, rassicuranti, preparati come esperti finanziari, parlano di rendimenti in crescita, indicano siti perfetti, piattaforme con licenza. Il primo passo è sempre minimo: «Solo 250 dollari per provare». Il marchio della truffa.
Poi arriva la fase dell’induzione
. I soldi dell’investimento sembrano crescere. Sullo schermo appaiono grafici, numeri, portafogli digitali. Qualcuno restituisce persino la prima somma, con un piccolo guadagno. È la trappola più sottile: fanno credere che stia funzionando. Poi l’investimento diventa una catena. Le cifre aumentano, le promesse si moltiplicano. E il denaro sparisce. Quando la vittima capisce, è già sprofondata.



















































Lì scatta la terza fase, quella che Giordano definisce «la più crudele». «Si ripresentano come finti avvocati o investigatori privati. Sanno tutto: quanto hai perso, a chi hai versato, perfino i tuoi orari. Ti dicono che possono recuperare i soldi. Ti mandano moduli, documenti, numeri di protocollo. E ti chiedono un piccolo anticipo per le spese». Chi ha perso tutto ormai è oltre la disperazione. Paga ancora. È la «fase di recupero»: in realtà, lo spolpamento finale. Spesso i dati vengono rivenduti a catene di truffatori. «Quando arrivo io — racconta il legale — il denaro è già evaporato. Le autorità hanno strumenti, ma tempi lenti. Servirebbe una corsia speciale, come per i reati informatici gravi. I casi si moltiplicano ogni settimana».
Nel frattempo, la tecnologia corre. Ora non basta più la voce. Serve un volto. Video creati con l’intelligenza artificiale mostrano economisti, imprenditori, persino professori universitari che «consigliano» investimenti. «Le persone si fidano di quello che vedono», dice l’avvocato. «Non sanno che dietro c’è un software. L’AI copia espressioni, intonazioni, tic. In certi video perfino io, che faccio questo mestiere, faccio fatica a capire che è un falso». Testimonial scelti per la loro autorevolezza e «replicati» con l’AI. È successo, tra gli altri, a Cottarelli e Giavazzi, esperti stimatissimi e conosciuti a livello globale. Gli investigatori confermano: girano decine e sempre nuovi video clonati, sponsorizzati su social network, con volti noti. Basta un click per finire in un gruppo chiuso, poi in una chat privata, e da lì parte la catena. Il meccanismo psicologico è preciso. Prima seducono con il linguaggio dell’opportunità, poi isolano la vittima. Fanno credere che «gli altri stanno guadagnando e tu resti indietro». Fear of missing out, la paura di restare fuori. «Si crea una dipendenza. Alcune vittime arrivano a credere più al truffatore che al proprio avvocato. È una specie di sindrome di Stoccolma digitale».

Ogni faldone sul tavolo racconta lo stesso schema, con sfumature diverse. Una mail, una chat, un volto che non esiste. L’intelligenza artificiale amplifica tutto: velocità, realismo, impunità. Chi indaga lo sa, ma rincorrere il denaro è quasi impossibile. «Bisogna muoversi prima — conclude Giordano — perché dopo non resta niente da salvare. Serve un sistema giudiziario capace di agire in ore, non in mesi». La chiave è difendersi prima. Diffidare. Verificare. Prevenire. Quando la caduta è iniziata, niente può più proteggere dallo schianto.


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16 novembre 2025 ( modifica il 16 novembre 2025 | 07:55)