L’intervista
Atteso mercoledì alle 21 al Dis_Play del Brixia Forum con «Radio Linetti Live Tour»: uno spettacolo che intrattiene, emoziona e fa riflettere, un po’ come ogni giorno «Deejay chiama Italia» su Radio Deejay

Linus sul palco a Mantova
(Fotolive)

Linus sul palco a Mantova
(Fotolive)
La sua vita è in diretta: radio o teatro poco cambia, in fondo, quando si è nati per fare questo. Quando si è comunicatori sia per vocazione innata che per esperienza acquisita. Non è un mistero dunque il segreto di Linus, atteso mercoledì alle 21 al Dis_Play del Brixia Forum con «Radio Linetti Live Tour»: uno spettacolo che intrattiene, emoziona e fa riflettere, un po’ come ogni giorno «Deejay chiama Italia» su Radio Deejay. Parola d’ordine, autoironia. Con il sorriso, ma con mano ferma, Linus – al secolo Pasquale Di Molfetta – dirige l’emittente dal 1994 e da quest’anno è anche presidente di Elemedia. Traguardi professionali raggiunti partendo dalla gavetta. La sua storia è una colonna sonora mandata a memoria da generazioni, racconti e ricordi che sono forma e sostanza dello show in programma a Brescia.
«Video Killed the Radio Star», cantavano i Buggles 45 anni fa. Profezia ribaltata dai fatti: è semmai la radio a conquistarsi altri spazi, più viva e scalciante che mai.
Il problema di molte radio, in generale, è quello di trasformarsi in una specie di filodiffusione con il minimo sforzo in cerca del massimo risultato. Invece io ho ancora la velleità di fare una radio che abbia la sua ragione di esistere: è un mezzo dal potenziale incredibile, spesso sottovalutato. La televisione ha bisogno di un apparato enorme e soprattutto di una condizione statica per poterla fruire: la guardi solo se sei a casa, di per sé una limitazione. La radio è ovunque, è capillare. Una volta era un apparecchio gigante al centro del salotto, adesso è dentro i telefoni, i computer, le tv stesse. Capisco i ragazzi che preferiscono le piattaforme di streaming: l’avrei fatto anch’io, se fossero esistite ai miei tempi. Ma le canzoni a un certo punto finiscono e vai alla ricerca di qualcos’altro: qualcosa che solo la radio ti può dare.
Come si svilupperà lo show?
È l’evoluzione di quello iniziato ormai un anno e mezzo fa. È un vero spettacolo teatrale, un monologo con gli interventi di Matteo Curti che mi fa da spalla e tanti piccoli inserti musicali che servono a puntualizzare. La musica è molto presente, ma mai per più di 30 o 40 secondi di fila. Non è una serata in discoteca né un concerto, è un racconto.
«Fuori Massena» è il progetto che andrà in scena da domani al 31 marzo alla Fabbrica del Vapore di Milano sotto le insegne di Radio Deejay, Radio Capital, Radio m2o e OnePodcast. Musica, eventi e intrattenimento escono dagli studi per essere vissuti in una nuova dimensione. La vostra fabbrica di talenti diventa itinerante. Il futuro è già il presente?
Il cambiamento in atto io lo vedo dai posti in cui vado. I primi tempi, quando è nata l’idea di andare in scena, avevo un po’ soggezione: mi sembrava un posto sacro, destinato solo a quelli che fanno teatro sul serio. Un po’ come quando ci si mette a scrivere un libro, mestiere che dovrebbe essere riservato agli scrittori veri. Ma in fin dei conti la funzione del teatro è riunire le persone intorno a qualcuno che ha qualcosa da raccontare, come fa anche la radio. Lunga vita a chi fa teatro sul serio, ma mi sono reso conto che i teatri forse li stiamo mantenendo noi che non siamo purosangue teatrali.
Anche le case editrici del resto devono ringraziare chi non era nato scrittore ma lo è diventato, come quel Fabio che viene da Brescia e va in onda al «Volo del mattino» su Radio Deejay.
Esatto. Anche l’editoria probabilmente sta in piedi grazie ai Fabio Volo.
Manuel Agnelli dice che sta nascendo una generazione rock che spazzerà via tutto. Ma non è che anche in questo ambito il futuro è già qui? Blanco, Alfa, Geolier: tutti giovanissimi e già big, se partecipassero al prossimo Festival di Sanremo sarebbero gli assoluti.
È in atto uno dei cambiamenti più drastici mai avvenuti nella storia della musica pop. Bisogna essere un po’ aperti, perché quelli della mia generazione a volte tendono a giudicare con parametri che non sono corretti: i ragazzi di oggi sono cresciuti fra suoni così lontani da quelli a cui facciamo riferimento noi che non si possono fare paragoni. Dobbiamo scendere di un gradino, fare un passo verso questi nuovi modi di proporsi. La musica nuova, a sua volta, deve darsi un po’ più di struttura. Un tempo i testi li scrivevano De André o De Gregori, gente che se non avesse fatto canzoni avrebbe scritto libri. La musica di adesso pare tutta fondata soltanto sul malessere giovanile, che per carità è un argomento importante, ma non si può parlare solo di quello.
Sintonia, affetto, complicità caratterizzano le radio del vostro gruppo: è proprio questo gioco di squadra la chiave di tutto?
Dirigo la radio da 31 anni, era il novembre del 1994 quando ho iniziato: non voglio spacciarmi per il miglior direttore del mondo, ho fatto un buon lavoro ma non voglio prendermi meriti che non mi appartengono. Però credo di essere stato bravo in questi anni a creare questo clima. Senza cadere nella retorica del «Siamo tutti amici», si sono creati legami e anche nel mio programma ormai da una decina d’anni siamo sempre noi quattro più le tre ragazze più i ragazzi della televisione: un gruppo con il quale sto bene prima di tutto empaticamente, poi anche professionalmente. Le due cose, secondo me, non possono viaggiare separate, perché comunque noi abbiamo bisogno ogni giorno di essere di buon umore e non puoi esserlo se il tuo vicino di banco ti sta sulle scatole.
Lei è il giocatore che diventa presidente.
Ho fatto il giocatore, l’allenatore, il presidente e non è finita: vediamo cosa ci riserverà al futuro.
Le piacerebbe che Del Piero facesse lo stesso percorso nella sua Juventus: da capitano a presidente?
Sarebbe bello, sì, che gli affidassero un ruolo del genere. Avremmo tanto bisogno di identità che fanno recuperare un po’ di senso di appartenenza.