Il mio gioco a premi preferito di tutti i tempi è giapponese e l’ho visto su YouTube.
Si chiama Silent Library ed è molto semplice: ci sono sei concorrenti, e sono in biblioteca. Viene svelata una tortura tramite apposito cartello, e poi sorteggiano una carta per scoprire chi la subirà. La parte bella ovviamente è che, essendo in biblioteca, devono subirla senza urlare per non disturbare gli altri avventori. Ho scoperto che poi gliel’hanno copiato gli americani, senza successo.
Non so, vi vengono altri esempi nella vita reale che vadano più vicini all’idea di The Running Man, gioco a premi in cui devi letteralmente scappare per l’America inseguito dall’ICE da appositi cacciatori che se ti trovano possono spararti a vista? Forse Takeshi’s Castle, non a caso sempre giapponese. Ho visto cose che in effetti non ci credo non sia mai morto nessuno. Però ecco, se è successo non hanno fatto apposta e hanno coperto bene, staccando sul testone di Takeshi Kitano / Mashiro Tamigi.
Che dire, l’omicidio di proposito in diretta a puro scopo di intrattenimento è ancora un taboo, ma sento che negli ultimi tempi gira un’aria birichina… Non dico che succede, però dico che se proprio volessero e ci tenessero fortissimo troverebbero il modo di farlo. La racconterebbero nel modo giusto, sceglierebbero un target ben mirato, solleticherebbero la pancia di un sacco di infelici e – dopo una bella spintarella dei proverbiali bot russi e del nostro amico algoritmo – di sicuro qualcuno inizierebbe a pensare “dai, messa così non è del tutto spregevole”. E gli altri che farebbero? Non sai che incazzature sui social e discese in piazza! Ovvio. Ci sono state per molto meno. Ci sarebbero un sacco di post e newsletter che ti spiegano perché ammazzare la gente in diretta per intrattenimento non è una bella cosa, come se fosse necessario, perché finirebbe per sembrare necessario. Per cui insomma, oggi la premessa di The Running Man non mi fa esattamente ridere come nell’87, quando era solo una scusa per mettere Schwarzenegger in un fumettone esagerato in cui dire le sue battutine a getto continuo. Anzi, un po’ mi rovina l’umore.

Qua io forse piuttosto preferirei giocarmi le mie chance al Running Man

Se uno pensa al Running Man con Schwarzenegger, il più classico dei prodotti anni ‘80 nel suo essere un materiale pre-esistente che si piega alle caratteristiche della sua star invece che viceversa, pensa alla storia a segmenti di un tizio che deve menare avversari sempre più cartooneschi, e allora Edgar Wright aveva già fatto questo film e si chiamava Scott Pilgrim.
Ma Edgar Wright non è il tipo da fare due cose identiche, e allora ecco che il suo Running Man ignora quasi completamente il primo film e si rifà, piuttosto fedelmente, al romanzo originale che Stephen King aveva scritto e firmato con lo pseudonimo di Richard Bachman.
Ben Richards è l’uomo più incazzato del pianeta. Si nota, ma poi glielo dicono anche, così se stavate controllando il telefono lo sapete. Ha all’attivo una serie di licenziamenti per insubordinazione – l’ultimo per aver cercato di coinvolgere il sindacato a riparare un’ingiustizia – e gli prudono le mani facile: è, in poche parole, il classico eroe anni ‘80. Ha una bambina piccola e bisognosa di costanti cure mediche che non può permettersi e una moglie che sta considerando la carriera da escort, e quest’ultima cosa è la goccia che fa traboccare il vaso: esce di casa e va a fare il provino per un famigerato, sadico, popolare show televisivo: Ballando con le stelle The Running Man.

Questa è la scena in cui lui impugna l’ammazza-zanzare dal lato sbagliato

Forse ci rimane persino troppo fedele: il futuro rimane futuro, ma l’immaginario si scansa di poco da quello della fonte.
Quello tecnologico, che mischia droni e videocassette, e in cui la gente guarda ancora la tv e non i social sul telefonino.
Ma soprattutto l’approccio: il gioco di Wright stavolta è fare un action dritto, e il tono del libro lo porta a mantenere quell’aria di anello di congiunzione tra i grandi road movie di controcultura anni ‘70 alla Punto zero e Fuori in 60 secondi, e le storie distopiche di grande incazzo sociale stile Essi vivono e V per Vendetta.
Ma è proprio nel trovare il tono giusto, ironico ma non parodistico, con un protagonista che non è più un improbabile come Simon Pegg o Michael Cera ma il perfettamente a suo agio Glen Powell, che Wright fa fatica.
Ben è il working class hero che si ribella e, partendo da una missione personale, fa partire la rivoluzione. King scrisse il romanzo nell’82, e involontariamente gli uscì perfetto per il Sylvester Stallone di quell’epoca, quello del primo Rambo. Edgar Wright viene da un approccio alla materia ironico/distaccato/fighetto, e quel tono non gli appartiene: spende quasi tutto il film a cercare di bilanciare rabbia proletaria, testosterone e ironia, e se i tocchi ironici gli riescono naturali, il resto è visibilmente posticcio se non paternalistico. La colonna sonora è una cartina al tornasole: funk da connoisseur, quando Ben Richards è il tipo di personaggio grezzo e incazzato per il quale non servirebbe scostarsi troppo dagli AC/DC, per quanto mi escano ormai dalle orecchie al giorno d’oggi. Ma in realtà è l’indecisione che paga: a tratti Wright insegue le regole dei film alla Stallone – che ne so, la fuga dalla doccia, classico momento 80s per mettere il fisico scolpito dell’eroe in evidenza, cosa che di sicuro non poteva fare con Pegg e Cera – e a tratti è chiaro che non si accontenta e cerca soluzioni più consapevoli e distintive.
Il peggio arriva proprio dai sentimenti che il film vorrebbe esprimere: se la critica alle regole di intrattenimento televisive è tutt’altro che nuova ma se non altro puntuale, è quando il film vorrebbe sposare il punto di vista proletario dei poveri e affamati che ci si ferma alla superficie.
E siccome non voglio fare quello che se la prende con come Edgar Wright tratta i personaggi femminili, mi limiterò a dire che ce ne sono tre, uno fa da motivazione per l’eroe e poi sparisce, un altro si fa trascinare dalla propria queerness strabordante a una brutta fine, e l’altro spicca come quello peggio scritto/diretto. Ma può essere una coincidenza, perché no.
È comunque quando Wright si lascia fomentare dai suoi istinti più propagandistici di pseudo-lotta di classe che ci si imbarazza maggiormente, ed è per i modi grossolani più che per i contenuti.

“E questa è per tutte quelle volte che mi hai preso per il culo, Nanni!”

Il paragrafo finale va obbligatoriamente a Glen Powell.
Nessuno qua dimenticherà mai che, su queste pagine, l’abbiamo conosciuto per il suo essersi infiltrato nel cast di Expendables 3 da completo sconosciuto, unico a non avere le benché minime credenziali per far parte di un esercito di eroi d’azione, a meno che non consideriamo un piccolo ruolo in Spy Kids 3 (in cui comunque aveva conosciuto Sly).
Dopo quel film, la sua gavetta è stata comunque lunga: Top Gun – Maverick è di ben otto anni dopo.
Ma ripresentarsi oggi a guidare il remake di un film con Schwarzenegger è effettivamente la vendetta definitiva: è letteralmente come se il cast di Expendables 3 fosse stato fatto con la macchina del tempo.
E a me piace il Glen, lo ammetto. Ha il fisico da Capitan America ma la flessibilità per reggere più registri, inclusa l’ironia che serve per adattarsi a un film di Edgar Wright. Ok, è letteralmente un Chris Evans del discount in questo momento, uno che avrebbe potuto interpretare la parodia dell’action star Lucas Lee in Scott Pilgrim senza battere ciglio. Ma è più che convincente.
Il problema è che Ben Richards – questo Ben Richards, impoverito, emarginato, costantemente incazzato come un bufalo – sembra scritto su misura su un altro eroe dei nostri tempi: Ice Cube. Pensateci.

“Get outta here!!!”

Poster-quote:

“Armiamoci e partite”
Nanni Cobretti, i400calci.com

>> IMDb | Trailer