Ci sono film che riescono a mettere d’accordo tutti pur senza risultare fastidiosamente idealizzati dalla critica, e Le città di pianura di Francesco Sossai, arrivato nei cinema italiani lo scorso settembre, è uno di questi.

Io sono andata al cinema a vederlo insieme a una compagnia di trentenni dalle origini miste: Lombardia, Toscana, Basilicata, Lazio e due Veneti. Tutti, in qualche modo, ci siamo ritrovati nello spaesamento dei personaggi e, ovviamente, i due spettatori di Treviso ancora di più. Del cinema di Sossai piace la romanticizzazione del quotidiano, che non sfocia mai nello stucchevole, ma rimane aderente alla realtà di provincia. Nel suo film opera prima (e dimenticata, ve lo raccontavamo in questa intervista), Altri cannibali, Francesco Sossai fa un passo più deciso verso l’abisso della geografia sociale italiana, arrivando ai centri abitati ancora più piccoli, soffocanti e dimenticati: i paesini ai piedi delle montagne del Veneto. E lo fa con un film in cui lo stile, e soprattutto il suo legame concreto con ciò che racconta, così acclamato in Le città di pianura, era già ben visibile.

Altri cannibali

Foto: DFFB/Umberto Colferai

Di Altri cannibali, uscito nel 2021 e prodotto da Deutsche Film-und Fernsehakademie Berlin (DFFB), ha parlato lo stesso Sossai all’ultimo Festival del Cinema di Cannes, dicendo: «Da una parte mi ha penalizzato, perché quel film non è stato capito, non è mai uscito nelle sale, ha girato solo nei festival. Dall’altra nel mondo del lavoro italiano devi avere esperienza per fare esperienza. Il mio esordio ha tranquillizzato tutti i miei produttori sul fatto che ero capace di raccontare nella forma lunga». Ora che, dal 1 novembre, Altri cannibali è disponibile su Mubi, potrebbe avere la sua rivincita.

La trama del film, ambientato nel 2016, ruota attorno a Fausto (Walter Giroldini), operaio sulla quarantina nella cui vita entriamo in media res, nel pieno di un litigio con la madre e la sorella, poi mentre va a recuperare uno sconosciuto alla stazione dei treni. Il co-protagonista di questa storia si chiama Ivan (Diego Pagotto) e potrebbe avere qualche anno in meno di Fausto. Sicuramente ha una prospettiva di vita differente: vive a Padova, dove sta facendo un dottorato in Filosofia. Le differenze e similitudini tra le due personalità sono sparpagliate per tutto il film, mentre i due si conoscono meglio. Non scopriamo immediatamente il vero motivo dell’incontro e il perché i due uomini si rifugino in una casa sperduta della Valpiana, ma una sensazione ci fa lentamente percepire il peggio. La luce gioca un ruolo determinante in Altri cannibali, girato totalmente in bianco e nero, dando la percezione di non poter davvero mai essere sicuri che le scene stiano prendendo atto di notte o di giorno. C’è un’atmosfera abbacinante, quasi di deprivazione sensoriale: il cielo è un ammasso grigio che perde qualsiasi presunzione di punto cardinale o collegamento con il divino.

Altri cannibali

Foto: DFFB/Umberto Colferai

Prima ancora della luce, Sossai si concentra sul suono: Altri cannibali comincia con il rumore assordante delle macchine della fabbrica, che si scontra con il silenzio ancora più intenso degli uomini che ci lavorano. Ci sono poi le urla della madre di Franco, amorevoli e aggressive, disperate nel richiedere l’attenzione e l’amore del figlio, angosciate a tal punto da diventare un mezzo di controllo sull’altro. Il dolore dell’anziana diventa un mezzo per costringere il figlio che, per lo più, ascolta in silenzio. In un solo momento Franco prova debolmente a difendersi dalle accuse della sorella: «Voi non provate a capire la mia vita, la giudicate e basta». Nel quadro di famiglia rientra anche la figura di un «bravo papà, ottimo marito» con una dipendenza da alcool che ha finito per costargli la vita, lasciando una ferita aperta in chi gli è sopravvissuto. Il rapporto con la famiglia per Franco è totalizzante: nonostante sia disfunzionale, costituisce l’unico suo vero legame. Non ci sono amori, non ci sono amici. Lo dirà la madre di Franco quando lui e Ivan si uniscono per un pranzo a base di baccalà e polenta: «Franco non mi ha mai presentato i suoi amici». Forse perché di amici non ce ne sono mai stati.

Altri cannibali

Foto: DFFB/Umberto Colferai

Se in Le città di pianura l’amicizia è l’ultima spiaggia, l’unico vero motivo per cui vale la pena vivere, l’appiglio che salva dal baratro (cosa farebbe Doriano senza Carlobianchi?) nei paesi di Altri cannibali c’è solo un grande senso di solitudine. Quella solitudine che ti porta a conoscere una persona online a cui ti unisce un desiderio macabro: scoprire che gusto hanno le persone. Ivan e Franco si uniscono attraverso un destino lugubre, eppure, la loro è probabilmente la relazione più vicina a un’amicizia che Franco abbia mai provato. Nei giorni della loro missione assassina imparano a conoscersi tra difetti e ossessioni: la sbadataggine di Franco, l’ossessione per la morte di Ivan; le birre e i consigli. Prendono un acido (l’apertura mentale dell’uomo di città ha la meglio sulle ritrosie paesane di Franco) e passano una notte allucinata in cui bruciano vecchie riviste, corrono per strada in mutande, prendono a pugnalate un materasso e finiscono per condividere un segreto. «Qual è stato il momento più felice della tua vita?» chiede Ivan a Franco, entrambi mezzi nudi sul materasso, «la vittoria dell’Italia ai mondiali dell’82» risponde lui, tornando con la mente ai suoi 10 anni, quell’età in cui non hai vissuto abbastanza per avere una sola preoccupazione al mondo, così che, solo in quel modo, dice Franco, la gioia può essere veramente goduta nella sua pienezza.

Altri cannibali

Foto: DFFB/Umberto Colferai

È sempre Ivan a risolvere involontariamente il bandolo della matassa che è la vita di Franco, nel momento in cui si rende conto, con un misto di rabbia e disprezzo, che Franco non ha davvero intenzione di uccidere una persona per dare sfogo al suo desiderio di scoprirne il sapore: «A te basta immaginarle, le cose». Ivan elenca i desideri rimasti sospesi di Franco: aprire un chiringuito in Costa Rica, guidare un’ambulanza, rendere il lavoro in fabbrica solo un impiego temporaneo. A Franco basta aggrapparsi alle sue fantasie per essere felice e, alla fine, «non le realizzi mai».

In una scena esplicitamente risolutiva, Franco si trova faccia a faccia con il suo demone, proprio come lo spettatore che, seduto in quel bar di montagna, assordato dal canto degli Alpini, è costretto a fare i conti con il proprio senso dell’incompiuto. Facciamo mille progetti e altrettanti sogni, ma quello che ci importa è scoprire davvero dove ci porteranno? Oppure ci basta un’aspirazione all’altrove, l’illusione di una scelta, per avere la sensazione di sentirci soddisfatti? La domanda di Francesco Sossai non è banale, soprattutto in un contesto come quello dei piccoli paesi del Nord Italia, in cui l’incompiutezza si trasforma in immobilità e l’immobilità, spesso, in distruzione. Che sia dell’altro o di noi stessi, una forza centrifuga imprigiona i suoi abitanti in una sorta di vuoto rarefatto.

Altri cannibali

Foto: DFFB/Umberto Colferai

Alla fine, Franco prende atto di quel vuoto e il suo cambiamento non è solo interiore, ma anche nel modo in cui decide di tagliarsi i capelli o di rapportarsi alla sua famiglia. Non voglio dire esplicitamente come finisce Altri cannibali, ma forse per descriverlo posso limitarmi a parlare di uno specifico rumore. C’è uno scricchiolio da masticazione che proviene dalla bocca di Franco e che fa rizzare tutti i peli dello spettatore. È un rumore raccapricciante e, allo stesso tempo, è una liberazione.