Quando si parla di commedia romantica, o ci si approccia anche solamente al genere, ci sono certi prismi, certi modelli narrativi che, nell’ambito dell’intrattenimento più leggero, tendono sempre e comunque a ripetersi. Stiamo parlando di un filone di film in moltissimi casi estremamente simili, che il pubblico però conosce bene e, forse proprio per questo, continua a consumare anche con un certo interesse. Mango, il nuovo lungometraggio firmato da Mehdi Avaz, non fa molta differenza in questo senso, anticipando fin dal suo poster l’ipotetica vicenda al centro di un racconto non troppo innovativo in termini di sviluppi principali.

Disponibile su Netflix dal 7 novembre 2025, Mango non innova, non migliora e non ha l’obiettivo di mutare in qualcosa il proprio genere di appartenenza, ponendosi piuttosto al pubblico della grande N esattamente per quello che è: una rom-com dal facile sviluppo, fra la soleggiata Málaga e una più fredda, elegante e geometrica Danimarca (nel caso in cui vi piacciano le storie d’amore, e siete alla ricerca di un film un minimo più impegnativo in questo senso, vi rimandiamo alla nostra recensione di A Big Bold Beautiful Journey).

Un mango al giorno…

Mango parte dalle lussuose mura di un hotel danese, per poi approdare sulle coste assolate dell’Andalusia, dove il vento porta con sé l’odore dolce dei frutti maturi. Qui una donna arriva con un progetto che potrebbe cambiare per sempre non solamente la sua vita. Lærke (interpretata da Josephine Park), direttrice d’albergo dal passo deciso e dallo sguardo ambizioso, vola a Málaga con l’incarico di dare forma a un progetto imprenditoriale che rappresenta un vero e proprio salto per lei: un resort di lusso nel cuore di una piantagione di mango. Ma dietro l’apparenza dorata di quell’occasione si cela un territorio intriso di memoria, pure dolorosa, di resistenze e di ferite mai del tutto rimarginate.

Ad attenderla c’è Alex (Dar Salim), un ex avvocato che ha voltato le spalle alle aule di tribunale per rifugiarsi tra gli alberi del suo terreno. La piantagione è tutto ciò che gli resta di una vita interrotta, di un passato che preferisce non rievocare o ricordare troppo. Il suo rifiuto di vendere è quindi qualcosa di più profondo che una questione di principio: è il tentativo di preservare un legame, forse l’unico, che ancora lo tiene ancorato al mondo. Tra i due protagonisti di Mango, sin dal primo incontro, si accende una tensione sottile fatta di diffidenza, rispetto e curiosità reciproca.

Nel viaggio verso la Spagna, Lærke non è sola. Con lei c’è Agnes (Josephine Højbjerg), la figlia adolescente che immagina finalmente di trascorrere del tempo con questa madre perennemente concentrata sui suoi quotidiani impegni. La realtà, però, si rivela diversa: per Lærke, quella non è una vacanza, bensì una sfida professionale che potrebbe consacrare la sua carriera. Per Agnes, invece, è l’occasione di osservare da vicino il fragile equilibrio tra l’ambizione e la vita vera, tra ciò che si conquista e ciò che si potrebbe perdere lungo la strada.

Una dolce cartolina

Come anticipato, Mango è esattamente quello che ci si aspetterebbe da un lungometraggio del genere. L’amore, i sentimenti contrastanti, l’apertura intima e personale, il dramma, la rivalsa sono tutti elementi classici di storie di questo tipo. La consapevolezza del consumo è ben chiara fin dal principio, prima ancora di avviare un racconto di cui si conoscono, se non tutti, quasi, i risvolti principali di trama. La prevedibilità nella scrittura è quindi non solamente biglietto da visita, ma la costante di un prodotto facilmente dimenticabile e dal semplice consumo.

Di pari passo con una scrittura estremamente classica, ci si muove in un contesto radioso e soleggiato, in cui a sbocciare, oltre ad alcune tematiche anche interessanti, è questa Málaga meravigliosa e da cartolina. Lei è forse l’unica cosa distintiva e affascinante oltre al “già conosciuto” di fondo.

Nel contrasto abbagliante – complice la fotografia accesa e le inquadrature coloratissime – fra la “scelta sana nella natura” e la frenetica e distaccata vita di città, si snocciola l’intera riflessione principale di Mango, che parla di lavoro, di perdita dell’identità, di “ritorno alle origini” e di sincerità emotiva.

Nel calore della terra spagnola, il racconto si fa riflessione sulle seconde possibilità e sul prezzo del successo. Málaga si trasforma presto da luogo geografico a crocevia di destini, dove lavoro e desiderio, passato e futuro, si scontrano e si fondono. È qui che Lærke e Alex devono decidere chi vogliono essere – professionisti, genitori, amanti – e quanto sono disposti a perdere per scoprire, finalmente, cosa significa davvero appartenere a qualcuno.

Mango colpisce, di primo acchito, per una particolare dolcezza solare e rilassata, un senso di quiete che si insinua tra le immagini e le parole come una brezza che soffia leggera ma persistente. L’incontro tra Lærke e Alex si muove su un terreno trito e ritrito, quello dei sentimenti repressi e delle ferite che trovano conforto nell’altro, e lo fa nel modo più scolastico e orizzontale possibile. Il film sembra voler restituire dignità alla semplicità del racconto umano: due anime smarrite che si riconoscono nella perdita e nella possibilità di ricominciare.

Eppure, dietro questa apparente profondità, si cela una presumibilità che il film non riesce mai del tutto a scalfire, a lasciarsi alle spalle. Mango è la più classica delle storie d’amore: lei in carriera, lui tormentato, un paesaggio esotico a fare da collante e un sentimento che, immancabilmente, sboccia contro ogni logica.

Tutto procede secondo i binari di un copione già scritto, con dialoghi che sembrano usciti da un manuale del romanticismo, dei più semplici e facili da leggere fin dai primissimi istanti. Ne deriva un’opera priva di rischio, che preferisce e sceglie di cullarsi nella sicurezza del già visto, già assaporato, piuttosto che spingersi oltre. Un film che si guarda senza fatica, ma anche senza sorprese – come un tramonto perfetto che, pur bello, sai già esattamente dove andrà a finire.