L’anno scorso, durante la conferenza stampa di presentazione del suo album È finita la pace, il rapper italiano Marracash specificò che nel disco non erano presenti featuring, ossia canzoni fatte in collaborazione con altri cantanti. Rivendicò quella scelta come un elemento di originalità del progetto, ma anche come un modo per prendere le distanze da alcune tendenze consolidate dell’industria discografica, tra cui per l’appunto la sovrabbondanza di collaborazioni. Recentemente il collega Caparezza ha fatto una scelta analoga in Orbit Orbit, il suo nuovo disco: anche lui ha tenuto a evidenziare che nel disco «non ci sono feat».

Nel mercato della musica contemporaneo i featuring non sono motivati tanto da esigenze artistiche, ma soprattutto dal raggiungimento di obiettivi commerciali. Questo perché permettono di ampliare il proprio pubblico di riferimento, aumentando così visibilità, ascolti e presenza nelle classifiche e nelle playlist delle piattaforme. Secondo le opinioni più critiche, l’eccesso di collaborazioni spesso finisce per compromettere il valore e l’originalità di molte uscite discografiche, perché la presenza continua di ospiti rischia di indebolirne la coerenza artistica, rendendo i dischi e i singoli più prevedibili e annacquati, interpretati nei casi limite da cantanti quasi interscambiabili tra loro.

La tendenza ad abusare di featuring è piuttosto evidente soprattutto nelle nuove uscite hip hop, che spesso ne contengono tantissimi. In qualche caso superano persino il numero di canzoni senza ospiti: è accaduto recentemente nel caso di Canerandagio, l’ultimo album di Neffa, che contiene 16 featuring su un totale di 20 canzoni.

Anche se i musicisti collaborano da sempre, il termine “featuring” cominciò a essere utilizzato verso la fine degli anni Settanta come parte della cultura collaborativa tipica dell’hip hop, genere musicale che nacque agli inizi di quel decennio. All’inizio aveva soprattutto il ruolo di segnalare la presenza di un rapper ospite, spesso un MC (chi rappava) o un DJ (chi stava ai giradischi), chiamato ad aggiungere una strofa o uno scratch all’interno della canzone di un collega.

La parola però diventò davvero di uso comune soltanto vent’anni dopo: “She Ain’t Worth It”, una canzone del 1990 scritta dal cantante R&B Glenn Medeiros e dal rapper Bobby Brown, fu la prima con la dicitura “featuring” a raggiungere il primo posto della classifica Billboard Hot 100, la più importante dell’industria discografica statunitense.

I featuring ebbero un primo momento di grande espansione proprio agli inizi di quel decennio, soprattutto nella musica a cui l’industria si riferisce come urban (cioè fondamentalmente hip hop e R&B). Secondo Philip Kaplan, fondatore del servizio di streaming DistroKid, rapper e cantanti cominciarono a puntare moltissimo sulle collaborazioni come strategia commerciale a partire del gennaio del 1993 con l’uscita di The Chronic, il primo disco da solista del famoso produttore statunitense Dr. Dre.

In quell’album era presente anche la “Nuthin’ but a ‘G’ Thang”, scritta insieme a Calvin Cordozar Broadus Jr., un rapper 21enne che si stava facendo conoscere nella scena di Los Angeles con lo pseudonimo di Snoop Dogg. Quella collaborazione fu importantissima per la carriera di Snoop Dogg, e coincise con una fase in cui la musica hip hop stava cominciando a dominare il mercato discografico statunitense. Da quel momento in poi, scrive Kaplan, «i rapper continuarono a collaborare senza sosta».

Da una quindicina d’anni, con l’affermazione delle piattaforme di streaming, la centralità dei featuring è cresciuta ulteriormente. Se prima il successo commerciale dipendeva dalle vendite dei dischi o dai download di canzoni su store digitali come iTunes, oggi a contare sono soprattutto i singoli e i risultati d’ascolto che riescono a generare.

I featuring funzionano bene in questo sistema, perché permettono di unire platee di ascoltatori diverse e quindi di aumentare il potenziale successo delle canzoni. Non a caso dalla prima metà degli anni Dieci, quando gli abbonamenti ai servizi di streaming hanno iniziato a crescere, le collaborazioni sono aumentate in modo evidente.

Secondo un’indagine interna condotta da DistroKid e citata da Kaplan, tra il 2015 e il 2017 i featuring presenti sulla piattaforma più che raddoppiarono, passando dal 5 all’11 per cento. Anche alcuni studi accademici pubblicati negli ultimi anni hanno rilevato che i featuring ottengono risultati migliori. Per esempio, una ricerca del 2020 della IESE Business School di Barcellona ha mostrato che sulle piattaforme di streaming le collaborazioni generano in media oltre il 25 per cento di ascolti in più rispetto ai brani pubblicati da un solo artista.

Un altro studio, condotto dall’Università Bocconi analizzando le canzoni entrate nella Billboard Hot 100 tra il 1996 e il 2018, ha rilevato che i singoli con un featuring hanno una probabilità significativamente più alta di raggiungere le prime dieci posizioni rispetto a quelli senza un ospite.

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Dario Manrique, responsabile editoriale della sezione italiana di Spotify, dice che sulla piattaforma non esiste una regola fissa che colleghi una collaborazione a un maggior numero di ascolti, anche se quando un artista lavora con un collega più famoso è probabile che venga scoperto da una parte del suo pubblico, ottenendo così un vantaggio.

Le collaborazioni possono però favorire la diffusione di una canzone nelle cosiddette playlist algoritmiche, cioè generate automaticamente sulla base delle abitudini di ascolto degli utenti. In sostanza, quando in una canzone compaiono due artisti, l’algoritmo la associa ai gusti di entrambi i loro pubblici, e quindi tende a proporla a un numero più ampio di ascoltatori. Secondo Manrique, i featuring non facilitano invece l’inserimento nelle playlist editoriali, ossia curate direttamente dal personale della piattaforma.

Oggi i featuring sono una risorsa fondamentale anche per i musicisti emergenti, che spesso li utilizzano per sfruttare la visibilità di quelli più famosi e farsi notare più rapidamente. Anche per questo motivo, per i colleghi più noti sono diventati un’ulteriore opportunità di guadagno.

In una recente intervista, il rapper italiano Guè (che è ascoltato mensilmente da quasi 5 milioni di persone, una cifra più che ragguardevole per il mercato italiano) ha detto che si fa pagare nel «75 per cento» dei casi, e che i prezzi variano in base alla notorietà di chi chiede di collaborare con lui: meno è conosciuto, più il prezzo sale.

Se in Italia il fenomeno è tutto sommato recente, negli Stati Uniti i featuring sono diventati un giro d’affari molto florido già da diversi anni. Nel 2013 per esempio 2 Chainz, un rapper molto famoso oltreoceano, disse che una sua strofa costava 100mila dollari. Una cifra simile a quella del collega Lil Baby, ma comunque meno della metà di quella chiesta da Snoop Dogg.

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