Anno domini 2005: il social di riferimento è MySpace, il genere più popolare è il metalcore, che ha ormai soppiantato il nu metal nelle preferenze dei giovani grazie all’operato della New Wave Of American Heavy Metal capeggiata da nuove leve come Killswitch Engage, Shadows Fall, As I Lay Dying, Unearth e Trivium.
In questo contesto, tra le tante uscite dell’anno c’è anche l’esordio di una band australiana: si chiamano Parkway Drive, si sono formati un paio d’anni prima e dopo un solo EP registrano il disco di debutto in America, “Killing With A Smile”, con Adam Dutkiewicz dei Killswitch Engage come produttore. Da qui inizia un percorso di crescita che li vede scalare l’indice di gradimento all’interno del circuito metalcore, grazie ad album sempre più convincenti (“Horizons”, “Deep Blue” e “Atlas”), accompagnati da un’intensa attività live che tocca spesso e volentieri il vecchio continente.

Dieci anni dopo, quindi nel 2015, c’è la prima svolta: i semi del cambiamento intravisti in “Atlas” germogliano e danno vita ad un disco, “Ire”, che esce dal seminato metalcore in senso stretto ed abbraccia il meglio tanto dell’heavy metal degli anni ’80 quanto del nu metal dei ’90, con canzoni come “Vice Grip” o “Crushed” a fungere da portabandiera di questo nuovo corso.
Il successo è immediato sia in madrepatria, dove per la prima volta raggiungono la vetta delle ARIA chart (le classifiche radiofoniche australiane), che nel resto del mondo; un’ascesa che continua con il successivo “Reverence”, ancora più sinfonico ed accompagnato da esibizioni dal vivo sempre più pirotecniche e teatrali, permettendo al quintetto di Byron Bay di scalare i bill dei maggiori festival europei, come ben riassunto nel live album “Viva The Underdogs”.

L’arrivo della pandemia e un successivo momento di crisi all’interno della formazione – tradottosi nel meno ispirato “Darker Still”, primo mezzo passo indietro di una discografia finora sempre in crescendo – gettano qualche ombra sul futuro della band di Byron Bay, ma la trionfale esibizione con l’orchestra sinfonica all’Opera House di Sidney (ennesima similitudine con il percorso dei Metallica) conferma il ritrovato stato di forma della band, pronta a conquistare definitivamente il mondo.

Arriviamo dunque ai giorni nostri, con il tour del ventesimo anniversario che attraversa mezza Europa nei palazzetti (ma purtroppo salta l’Italia, dove mancano dal 2018).
Ignoriamo quale possa essere il motivo (impossibilità di riempire i palazzetti nostrani, vista l’affluenza non eccelsa nell’ultima data all’Alcatraz? Cachet fuori portata per i promoter? Difficoltà a gestire le norme antincendio per concerti al chiuso nel nostro paese?), ma per non perdere l’occasione di vedere quello che si prospetta come lo show dell’anno siamo andati a Praga, e possiamo dire ne sia valsa assolutamente la pena.
Prima di loro, però, ci sono due band connazionali, sebbene di genere molto diverso tra loro, come i The Amity Affliction e i Thy Art Is Murder; partiamo quindi da qui, per il resoconto di una serata da tramandare agli annali.

Arrivati alla Sportovní hala Fortuna, storico palazzetto del ghiaccio della squadra locale di hokey praghese (risalente agli anni Sessanta), nonché anche sede di moltissimi concerti, ci troviamo in una location un po’ datata (tribune piuttosto vissute, spazio ristorazione e merch decisamente ridotti) se pur funzionale e scorrevole a livello di code: verosimilmente, sarà una delle location più piccole del tour (per quanto si contano circa sette-otto mila persone), ma nonostante un palco non enorme tutto si è svolto regolarmente, a differenza ad esempio della data di Copenaghen, cancellata per motivi di sicurezza.

A rompere il ghiaccio (ci scuserete il gioco di parole, vista la location) quando sono passate da poco le 18 ci pensano i THE AMITY AFFLICTION, formazione del Queensland che negli anni Dieci sembrava destinata a ripercorrere la strada dei più illustri connazionali headliner, con un pizzico di emo in più ad impreziosire il loro metalcore. Dopo “Let The Ocean Take Me”, culmine artistico e commerciale del 2014, la band si è un po’ persa per strada, tra dischi a corrente alternata e cambi di formazione che hanno lasciato il solo Joel Birch come sopravvissuto della formazione originaria.
Stasera è dunque l’occasione buona per rivederli in azione e dobbiamo dire che, al netto di qualche aggiustamento nel mix, soprattutto sulle parti pulite del bassista Jonathan Reeves, la nuova formazione ha tenuto bene il palco, con il già citato frotnman a fungere da mattatore di fronte ad un palazzetto già discretamente gremito, anche se non ancora al completo.
Non avendo un disco nuovo da promuovere, nei quaranta minuti a loro disposizione il quartetto pesca un po’ da tutte le uscite dell’ultimo decennio: tra le nove canzoni in scaletta spiccano sicuramente l’opener “Pittsburgh” e “Death’s End”, entrambe tratte dal già citato “Let The Ocean…”, ma anche brani più recenti come “I See Dead People” o “Soak Me In Bleach” hanno una buona presa sul pubblico, che ne accompagna l’esecuzione con i primi circle pit e le consuete mani alzate.

Dopo un inizio tutto sommato soft, ad alzare il livello di violenza nel pit vengono chiamati i THY ART IS MURDER, formazione veterana della scena deathcore con sei album all’attivo e qualche coda polemica dopo il licenziamento del cantante CJ, a seguito di dichiarazioni transfobiche su Instagram.
A livello musicale la prova del quintetto di Sidney è maiuscola, con il frontman Tyler Miller imponente sia nella stazza che nel chiamare wall of death e circle pit, oltre a ribadire ogni due-tre pezzi che loro sono qui “per suonare death metal” (con un’implicita nota polemica per le sonorità più mainstream degli altri due compagni di tour, o forse solo per farsi perdonare l’intro dei Vengaboys in apertura dello show); la sua prestazione risulta comunque convincente anche su pezzi più datati, come “The Purest Strain Of Hate” (unico estratto dallo storico “Hate”) o “Holy War”, dall’album omonimo di un decennio fa.
Anche nel loro caso c’è spazio per nove canzoni in quaranta minuti: il sound piuttosto compatto rende meno variegata la setlist per chi è meno avvezzo a queste sonorità, ma il pubblico anche nel loro caso sembra preso bene, e quando “Puppet Master” chiude lo show si conta parecchio sudore nel parterre.

Manca poco alle venti quando le note di “Back In Black” anticipano l’ingresso dei PARKWAY DRIVE sul palco: a sorpresa, però, l’occhio di bue si sposta al centro del parterre, dove un Winston McCall incappucciato con una vestaglia bianca e un bandierone guida la band attraverso la folla per poi prendere posto sul palco. Un ingresso degno di Rocky Balboa, e anche l’uno-due sul palco è in stile puglistico: tutti e cinque i musicisti sono raccolti in pochi metri quadri, sopra quella che capiremo poi essere la pedana mobile, e compatti come un solo uomo danno fuoco alle polveri con “Carillon” e “Prey”, ovvero due classici della prima e ultima epoca della band.
Una partenza col botto, ma siamo solo all’inizio: a questo punto infatti cade il telo nero rivelando il palco nella sua interezza, e con la più recente “Glitch” comincia lo show più pirotecnico, fatto di fuoco, fiamme, fontane e coreografie danzanti, con ben quattro ballerini ad animare l’esibizione: tutto è evidentemente studiato nei minimi dettagli, a partire dalla posizione dei musicisti, ma rispetto ad altri artisti particolarmente scenografici (Rammstein, Ghost, Falling In Reverse) si avverte un calore umano ed un’empatia non comune in questo tipo di show, che passa dai sorrisi di un visibilmente soddisfatto Winston McCall agli incitamenti all’audience, in visibilio sotto i colpi delle varie “Horizons”, “Vice Grip” e “Sacred”, ultimo singolo di quest’anno che non sfigura affatto rispetto ai vecchi classici.

La connessione totale con il pubblico trova nuova linfa a metà scaletta, quando la band annuncia che suonerà un medley di dieci minuti con i migliori estratti del debutto “Killing With A Smile”, di cui quest’anno ricorre appunto il ventesimo anniversario: gli effetti speciali si azzerano, ma vedere la band suonare il “Killing With A Medley/Mash-up With A Smile” è comunque uno spettacolo per l’energia profusa sopra e sotto il palco, dove nel frattempo si è aperto un circle pit in stile maelstrom con un numero di rotazioni in tripla cifra.
Per chiudere questo momento genuinamente hardcore, il frontman torna in mezzo al palco durante l’esecuzione di “Idols And Anchors”, riportandoci indietro di vent’anni, ovvero all’epoca in cui suonavano nei bar di città o nei centri sociali.

La nuova versione dei Parkway Drive è ammantata tuttavia da una grandeur sinfonica, e così durante l’esecuzione di “Chronos” compare sul palco un trio d’archi tutto al femminile ad accompagnare la band a colpi di headbanging, per poi spostarsi nelle retrovie durante l’esecuzione di “Darker Still”, title-track dell’ultimo album in odore di “Nothing Else Matters”: qui è il chitarrista Jeff Ling a prendere le luci della ribalta, posizionandosi letteralmente al centro della scena (insieme al suo fido pedale wah wah manovrato da un roadie) durante l’esecuzione del lungo assolo.

Una travolgente “Bottom Feeder” chiude con il botto questa sezione dello show, ma le sorprese non sono ancora finite.
Al rientro della band per gli encore c’è spazio per un assolo di batteria rotante di Ben Gordon (con la sua postazione che gira a trecentosessanta gradi), prima che il palco prenda – letteralmente – fuoco: ogni musicista (batterista compreso) è avvolto in una gabbia infuocata, mentre un Winston in versione Terminator a torso nudo emerge dalla pedana al centro in mezzo alla fiamme, levandosi sopra le nostre teste per sparare fiammate come fossero fulmini di Zeus. Ad accompagnare questo spettacolo strabiliante non poteva che essere la terremotante “Crushed”, con tanto di botti pirotecnici ad accompagnare le esplosioni dei ritornelli, ma il colpo di genio è distribuire dei marshmallow sui bastoncini alle prime file, potendo così garantire l’effetto falò da campeggio (marsh-banging?) sui social.
Dopo una simile esibizione di potenza, il finale con la corale “Wild Eyes” (cantata a squarciagola da tutto il pubblico) è quasi un urlo liberatorio e funge da ulteriore momento di connessione totale tra il pubblico e gli artisti, nel loro caso visto come qualcuno di vicino (non a caso il loro motto è “Viva The Underdogs!”) piuttosto che un’entità astratta nascosta dietro la quarta parete.

Dopo quasi due ore di show di questa intensità usciamo dall’arena ceca consapevoli di aver appena assistito ad uno spettacolo che per chi scrive ha pochi eguali in un quarto di secolo di concerti: rispetto alle prime loro esibizioni di cui abbiamo memoria (all’inizio degli anni Dieci, quando si presentavano sul palco con le tavole da surf) sono cambiate tante cose, ma la voglia di divertirsi e l’amore per i fan sono rimasti gli stessi.
Auguriamo lunga vita ai mostri sacri del metal, ma la nuova generazione è pronta a raccogliere il testimone, e stasera ne abbiamo avuto un ulteriore conferma!

Setlist:

Carrion
Prey
Glitch
Sacred
Vice Grip
Horizons
Cemetery Bloom
The Void
Wishing Wells
Killing With A Smile Medley
Idols and Anchors
Chronos
Darker Still
Bottom Feeder
Drum Solo
Crushed
Wild Eyes