di
Federica Gabrieli
La modella, che oggi ha 87 anni e vive nel Trevigiano: «Quella foto non è moda, ma un segno di responsabilità che mi sono presa». E ancora: «Da giovane ero magrissima, mi chiamavano “grillo” e tutti gli abiti che arrivavano da Parigi mi andavano a pennello»
Una giovane 87enne. Una Signora. Letteralmente. Fisico esile, nessun trucco, nessun fronzolo, ma uno sguardo che dice tutto. Determinata. Rivoluzionaria. Infastidita dall’arroganza. Con una libertà intoccabile. Così è
Fiore Crespi, che da decenni lotta per la causa dell’HIV senza mai piegarsi agli stereotipi o alla paura.
Come descriverebbe la sua vita?
«La mia vita è stata un continuo desiderio di libertà: da piccola scappavo sempre, volevo fare cose insolite, e ho continuato così anche da adulta. Ho cercato di vivere e lavorare senza compromessi, con passione e impegno. Questo, forse, è ciò che più mi rappresenta.»
Dove nasce questa determinazione?
«Sono nata a Milano il 29 novembre 1938. Ho conosciuto mio padre solo a cinque anni perché era stato in un campo di concentramento, e mia madre, molto apprensiva, mi teneva come una porcellana. Da piccola scappavo continuamente: per trovarmi, alla fine, mia madre comprò un pastore tedesco addestrato apposta per cercarmi quando non tornavo. Per me
prendere il tram, invece dell’auto, era simbolo di libertà»
Aveva altri sogni da giovane?
«Sognavo di fare l’avvocato, di diventare paracadutista, hostess… tutto
quello che era insolito mi attirava. Ho lavorato in un’agenzia di viaggi e nelle
pubbliche relazioni dell’Alitalia, ma per fare l’hostess servivano firme dei
genitori e requisiti impossibili da raggiungere».
Come è entrata nel mondo della moda?
«Non sono andata in cerca della moda, sono stata notata. Mi chiamavano “Il
Grillo” perché ero magrina, sottile, e quando arrivavano gli abiti dalla Francia ero l’unica che poteva indossarli. Ho sempre portato bustini strettissimi. Poi sono arrivati Valentino, Moschino, Ferré e Armani: sono cresciuta con loro»
Come nasce il legame con la causa dell’HIV?
«Era il modo giusto per combattere. La paura del contagio era ridicola: non si sedevano sul divano, non venivano sulla mia macchina perché avevo accompagnato qualcuno al Sacco a Milano. Ricordo un episodio doloroso: ho perso un amico di HIV e sua sorella mi ha detto di dimenticarmi del suo numero di telefono. Sembrava avessi commesso un delitto. Anche oggi è difficile: la gente non capisce, un raffreddore lo prendi più
velocemente dell’HIV»
Lei ha indossato un capo di Moschino che è diventato simbolo della lotta contro l’HIV. Come lo ricorda?
«Trent’anni fa avevo 57 anni ed ero furiosa per lo stigma sull’HIV. Ho detto: “Faccio una bella foto grande, la metto a Milano con la frase ‘Io sono malata’ e vediamo la reazione”. Moschino ha metabolizzato l’idea e insieme l’abbiamo realizzata. Mai avrei pensato a una risonanza così grande»
Ha mai pensato di fare qualcosa di più concreto per le persone colpite dall’HIV?
«Volevo aprire una casa alloggio per vacanze di mamme con bambini malati. Vacanze fatte bene, in posti belli. Alla fine non si fece nulla perché la gente del paese era spaventata»
Indossare quel corpetto di Moschino e diventare simbolo della lotta contro l’HIV ha comportato per lei una grande responsabilità?
«Sono nata nella responsabilità. Quella foto non era solo moda, era un messaggio forte: dovevo rappresentare chi era colpito dall’HIV
senza banalizzare la cosa. Mi sono sentita responsabile di farlo con dignità e
chiarezza, senza cadere in spettacolo o sensazionalismo»
Si sente cittadina di Treviso?
«All’inizio mi chiamavano “la foresta”, ma poi fui fortunata: ricevetti la medaglia d’argento della sanità e uscì un articolo sui giornali con il titolo “La nostra cittadina trevigiana”. Oggi vivo a Santa Maria del Rovere e mi sento davvero una cittadina di Treviso.»
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17 novembre 2025 ( modifica il 17 novembre 2025 | 19:33)
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