“E’ incredibile quello che hanno visto ieri sera i miei occhi per non più di cinque minuti, fin troppo esaurienti, alla televisione… Ho realizzato solo dopo un po’ quello che stavo vedendo: due donne molto simili l’una all’altra stavano facendo evoluzioni d’una assoluta facilità, come due automi caricati a molle, che sanno fare solo quei due o tre gesti, capaci di dare una inalterabile e iterativa soddisfazione al bambino che li osserva. Due o tre mossucce idiote incastonate in un ritmo che voleva essere gioioso e invece era soltanto facile”.

Chi erano sono le due donne molto simili l’una all’altra, i miei venticinque lettori l’avranno già capito, le gemelle Kessler, ovviamente. Ma chi è che scrive questi giudizi così severi (e ho tralasciato la parte successiva ancor più pesante)? Nientemeno che Pier Paolo Pasolini in un articolo apparso su Il Tempo il 1 novembre del 1969 dal titolo Canzonissima (con rossore). E allora la domanda sorge spontanea ma soprattutto ineludibile in questo momento in cui le gemelle Alice ed Helene Kessler vengono celebrate come esempio di una comunicazione elegante, raffinata e persino protofemminista: come è possibile un simile giudizio? che senso ha? e aveva ragione Pasolini, qualche ragione?

La mia risposta è no. Quello di Pasolini è un giudizio un po’ superficiale, lui stesso lo ammette: ha visto cinque minuti, distrattamente a casa di una zia malata che è andato a trovare insieme con la mamma. Pensate che quel balletto tanto aborrito è in realtà la sigla di Canzonissima del 1969, realizzata con la regia del grande Antonello Falqui, un gioco di specchi astratto degno del grande musical americano, talmente bello che la scenografia è ancora oggi conservata al Teatro delle vittorie come un’opera d’arte. Questo era il vero pregio di quella televisione, di essere una televisione opera di registi, una tv d’autore e le gemelle Kessler hanno avuto la fortuna e il merito di esserne parte integrante, lungi dall’essere automi, interpreti ben consapevoli del loro ruolo. Un’interpretazione, la loro, che continuava anche fuori dal palcoscenico, nella loro vita privata mai mondana, nelle frequentazioni colte, in quella riservatezza che le rendeva come inaccessibili.


“Non abbiamo più parenti e se li abbiamo non li conosciamo. Abbiamo scelto Medici Senza Frontiere perché rischiano la vita per gli altri”: l’eredità delle Kessler

“Non abbiamo più parenti e se li abbiamo non li conosciamo. Abbiamo scelto Medici Senza Frontiere perché rischiano la vita per gli altri”: l’eredità delle Kessler


Leggi articolo

C’è una scena di un film di quegli anni che ben esemplifica questa loro immagine. E’ il finale di Guglielmo il dentone, il famoso episodio del film I complessi. Il protagonista, un grande Alberto Sordi, è un giovane preparatissimo che vuole fare il conduttore del telegiornale, ma la sua aspirazione non si concilia con il suo aspetto, una dentatura esagerata poco telegenica. Guglielmo però non demorde, supera tutte le prove del concorso, aggira brillantemente i trabocchetti che le commissione gli prepara, rifiuta i consigli di chi gli si presenta come amico e alla fine la spunta.

Quando al termine di una sua conduzione, apprezzata anche dal pubblico, esce dagli studi orgoglioso e trionfante, appare, ammirato e invidiato, in compagnia delle gemelle Kessler. È il segno del massimo successo e prestigio per italiano di quell’epoca: uscire in compagnia delle desideratissime ma irraggiungibili gemelle. Oggi è bello ricordarle in queste immagine simbolica, divertite e sorridenti. Alice ed Ellen che vi sia lieve la terra e, come diceva la vostra canzone, piccola la notte.