“Interpretare Carlo Acutis è stata una grande responsabilità: non è un personaggio inventato, è una persona vera. E questo ti obbliga a essere onesto. Sono tanto grato a tutto questo”. Jacopo Iebba ha 20 anni, vive a Tivoli e nella serie tv The Saints, prodotta e narrata da Martin Scorsese per Fox Nation ha interpretato il giovane santo Carlo Acutis. La prima puntata della seconda stagione è uscita il 16 novembre negli Stati Uniti. Il 7 dicembre andrà in onda quella dedicata ad Acutis. “L’immagine più forte, che mi scuote ancora, – racconta a Rainews.it – è stata quando abbiamo girato il funerale di Carlo. Ero disteso in una bara aperta. Avevo un velo sulla faccia. Davanti a me duecento persone tutte in nero che mi guardavano. Gli attori che interpretavano amici e parenti piangevano sopra di me. Io guardavo il soffitto affrescato della chiesa e pensavo che tutto ciò fosse a dir poco surreale. Sono rimasto stordito e dissociato per tutta la giornata di lavorazione”.

Come è andata l’esperienza sul set di Scorsese?

“La puntata dedicata a Carlo è stata diretta da Francesca Scorsese. Francesca è giovane, molto aperta e di una solarità che rende tranquilli. Sul set mi lasciava provare ogni ciak in modo diverso, dando una libertà disarmante alle mie proposte. Credo le piacesse vedere fin dove riuscivo a incasinarmi da solo. Martin era presente spesso in videochiamata, la sua presenza distante aveva qualcosa di mitologico”.

E i provini?

Ho registrato il self tape, l’ho mandato, e ho provato a dimenticarmelo per evitare di diventare ossessivo. Poi mi hanno chiamato per un secondo provino, poi per un terzo e così via. Alla fine mi sono trovato ad essere provinato in videochiamata dai piani alti. Un po’ surreale, tipo quando apri la fotocamera frontale senza volerlo, ma con Martin Scorsese dentro. Quando mi hanno detto che avevo ottenuto il ruolo, ho provato quella sensazione che capita poche volte nella vita: una totale dissociazione anestetica”.

Altre esperienze prima di questa?

“Ho iniziato con i cortometraggi, poi ho lavorato con Massimiliano Bruno in “Beata ignoranza” e “Non ci resta che il crimine” nei panni di Marco Giallini da giovane. Il primo ruolo da protagonista è arrivato con “The Music of Silence”, biopic su Andrea Bocelli diretto da Michael Radford, regista del bellissimo film “Il postino”. Ho fatto due serie Rai, “Jams” ed “Effetto Giò”, più qualche film in ruolo minore e spot pubblicitari. Ogni esperienza mi ha insegnato qualcosa sul mestiere”.

Quando hai cominciato a recitare?

“Ho iniziato da bambino, nelle recite scolastiche, dove il pubblico era un esercito di parenti convinti di star assistendo all’evento dell’anno. Mi divertivo. A otto anni sono finito nella scuola di teatro di Tivoli, con Max Malatesta, che mi ha lasciato inciampare e rialzare, facendomi notare che avevo imparato qualcosa senza accorgermene. Mi ha messo nella condizione di capire tante cose. Da lui mi è rimasto molto, forse troppo, e ne vado fiero. Poi sono arrivati i primi lavori con alcuni allievi del Centro Sperimentale, e lì la strada ha iniziato a mostrarsi per quella che era: uno scarabocchio percorribile, e io la seguivo senza farmi domande”.

Delusioni e copioni di cui sei pentito?

“I provini non li conto più, ma ho ogni copione e stralcio custodito in un cassetto. Il mare di delusioni ricevute da bambino mi hanno insegnato a ignorare il fallimento. L’ego dell’artista è maligno: ti compiace e ti tiene per mano solo quando fai qualcosa di concreto.

L’emozione più forte?

“Essere scelto per un ruolo. Non vengo da una famiglia di artisti, ma ho due genitori e due fratelli bellissimi che mi hanno sempre tenuto per mano, anche quando volevo stare solo. Senza di loro, probabilmente starei ancora a inventarmi monologhi e a ripeterli facendo smorfie alla Jim Carrey davanti allo specchio. A casa nostra non si guardano film, non si ascolta musica, non si parla di dipinti o musei: quindi ogni ruolo conquistato mi ricorda di quanto la mia testa sia condita di arte, testardaggine e immortale pazienza”.

Quali personaggi preferisci interpretare?

“Mi attirano i personaggi che hanno un nucleo vivo, qualcosa che pulsa sopra e sotto le battute scritte. Quando mi imbatto in questo dico: ‘Ok, qui c’è un essere umano, non una macchietta’. Per questo a volte mi pesa quando mi capita di dover interpretare figure vuote, pensate più per riempire una scena che per raccontare qualcosa”.

Che effetto ti fa poi vederti?

È la mia tortura preferita. Non mi compiaccio mai: vedo ogni esitazione, ogni gesto che avrei potuto proporre meglio. L’unico lato positivo è che impari in fretta cosa non rifare. È un rapporto conflittuale, ma utile. Molto utile”.

Ci sono situazioni frustranti?

“La parte frustrante è la meritocrazia, o meglio, la sua totale assenza. Qui contano più i numeri che il talento. A volte mi chiedo se il vero protagonista sia l’attore o il suo algoritmo di popolarità. Poi c’è l’incertezza infinita dell’artista. Finisce un progetto bello e ti ritrovi sotto terra a chiederti come si sopravvive alla vita. È una specie di ginnastica continua per il cuore e il narcisismo montato. Quello che cerco di migliorare è tutto ciò che posso controllare: rimanere lucido, trovare profondità anche in ruoli minimi, imparare a non farmi sedurre dall’abitudine, cercare di fare un buon lavoro senza prendere tropposul serio me stesso”.

Sogni nel cassetto?

Non ho un desiderio preciso. Però mi diverte l’idea di raccontare qualcuno che vive tutto storto, chiuso nel suo guscio vitale, completamente fuori posto rispetto al resto. Nei miei primi lavori da regista o parlo di sentimenti che mi divorano l’anima, o creo storie che avrebbe scritto il mio piccolo io. Ho realizzato il cortometraggio Asceso, che parla di quanto ci illudiamo di poter raggiungere tutto, e poi invece cadiamo, un po’ come Icaro, ma con meno cera e più drammi quotidiani. Ora sto iniziando il secondo cortometraggio: sarà totalmente strambo e racconterà di un ragazzo che cercherà in tutti i modi di conquistare una bellissima ballerina in un cabaret folle e decrepito. È un po’ una giostra di follia, ironia e poesia, raccontata con gli occhi di un bambino che ha solamente troppe storie nella testa”.

 

Martin Scorsese presenta The Saints

Martin Scorsese presenta The Saints (Francesca Scorsese/Fox Nation)

Cos’è per te il cinema?

“I film mi hanno scombussolato, mi hanno dato colori e poesia e anche la convinzione, abbastanza presuntuosa, che ogni tanto potessi restituirne un po’ anch’io. Ho bisogno di sentirmi piccolo davanti a un semplice occhi gigante quanto un palazzo. È terapeutico: ti ridimensiona l’animo meglio di qualunque psicologo, e a me serve parecchio”.

Prossimi impegni professionali?

Insegno breakdance ai bambini, all’Hub Dance Studio di Chiara Giancaterina, che mi ha insegnato a far parlare le emozioni attraverso il corpo. La sera consegno pizze, almeno mantengo i piedi per terra e mi regalo qualche spunto teatrale inatteso. Per il resto, sto provando a costruire una mia carriera registica”.

Dal lavoro con Scorsese, lasciato il set, cosa hai imparato?

La cosa che ho imparato è che i registi possono avere una visione così chiara da permettersi di non schiacciare nessuno. Guardano, ascoltano, aggiustano due cose, e qualcosa di bello può prendere forma. Se un giorno dovrò dirigere qualcuno, spero di avere la stessa leggerezza e empatia”.