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La prima versione di Toy Story era molto diversa da quella che poi è uscita al cinema trent’anni fa. Sia la sceneggiatura sia i primi bozzetti e test d’animazione avevano personaggi spietati, un tono più cupo, umorismo adulto e anche i protagonisti, Woody e Buzz, erano poco amabili. A cambiare tutto e fondare quello che poi sarebbe diventato il tono della casa di produzione Pixar, quel misto di divertimento, sentimentalismo, umorismo molto adulto, temi sofisticati e confezione accessibile anche ai bambini, fu una persona esterna alla società che ancora oggi in pochi collegano alla Pixar: Joss Whedon.

Whedon poi non collaborò più con lo studio e chi lo conosce oggi lo collega alla serie Buffy l’ammazzavampiri (che creò e scrisse) e ai film di grandissimo successo Avengers e Avengers: Age of Ultron (che scrisse e diresse), i primi a mettere insieme i supereroi del gruppo Marvel. Gli fu chiesto di collaborare a Toy Story solo perché nessuno era contento della prima versione e c’era bisogno che diventasse un po’ più come le sue sceneggiature, senza immaginare quanto il suo stile sarebbe poi stato influente per i cartoni futuri della società.

All’inizio degli anni Novanta la Pixar era una società che da circa una decina d’anni lavorava alla nascente animazione in computer grafica. Erano gli unici o quasi a sperimentarla, dovevano costruirsi i propri software e non avevano mai fatto un lungometraggio. Realizzavano semmai dei corti e si mantenevano a malapena creando personaggi animati per spot pubblicitari. Erano più che altro una società che faceva ricerca e sviluppo in quel campo, contando sul fatto che un giorno sarebbe stato il futuro dell’animazione.

Creare un lungometraggio era uno sforzo superiore alle forze dell’azienda ma a un certo punto si rese necessario, perché era l’unica maniera in cui fare animazione potesse generare un profitto.

Tra tutti i corti che avevano fatto, uno aveva avuto particolare successo, vincendo anche l’Oscar per il miglior corto animato: Tin Toy. È la storia di un giocattolo di latta che fa una vita difficile, perseguitato dal neonato che lo possiede: quell’idea fu scelta come soggetto del loro primo film. Per avere la forza economica per farlo e poi per promuoverlo e distribuirlo si rivolsero alla Disney per una partnership, anche se la Disney distribuiva solo i propri cartoni.

Pochi anni prima però aveva fatto un’eccezione per Nightmare Before Christmas, scritto e prodotto da Tim Burton, con grande soddisfazione. Decisero quindi di aprirsi agli studi esterni ma rimanendo pur sempre la Disney, cioè uno studio potente che esercitava e pretendeva grande controllo. Distribuire il primo film animato al computer era per loro l’ideale, perché come Nightmare Before Christmas era talmente lontano dai toni e dal look dei loro cartoni da non essere in concorrenza. Per enfatizzare questa diversità pretesero quindi che la storia e i personaggi fossero molto più adulti, sboccati e cattivi.

Fu così che si arrivò alla prima versione di Toy Story cinica e cupa. Benché la storia fosse sempre quella di un giocattolo nuovo che minaccia lo status di quelli vecchi, il cowboy Woody era un giocattolo più grosso di Buzz Lightyear, più piccolino, e il suo carattere era proprio cattivo e da bullo: pianificava di distruggere fisicamente Buzz e a un certo punto dava dell’idiota agli altri giocattoli. Buzz invece aveva un carattere più saggio e impeccabile, un primo della classe che non sbaglia mai, emanazione dell’era dei computer. Nella biografia di Whedon quella prima versione viene descritta come “inguardabile”: «La storia aveva perso lo spirito di Tin Toy; i protagonisti erano sarcastici e insopportabili, non proprio gli eroi di un film per bambini».

Questa versione non convinse nemmeno i produttori della Disney, e perciò fu proposto di convocare Joss Whedon, allora già sceneggiatore molto abile con i toni leggeri, bravissimo con i dialoghi e di grande empatia, per fargli fare una riscrittura del copione e vedere cosa ne sarebbe uscito. Per Whedon doveva essere un lavoro da tre settimane, solo per aggiustare un po’ di cose, ma finì per essere coinvolto per sei mesi. Lui stesso ha raccontato di come la sceneggiatura che ricevette fosse «un disastro, ma lo spunto dei giocattoli con un’anima era eccezionale».

Joss Whedon nel 2013. (Dana Nalbandian/WireImage)

Whedon trovò una maniera di scrivere i personaggi per essere amabili ma non per forza i classici “buoni” da film Disney. Diede a ognuno un conflitto interessante, rese Woody un giocattolo innamorato del suo padrone che diventa geloso (ma che si rende presto conto di aver sbagliato) e si inventò il fatto che Buzz non sa di essere un giocattolo, così da renderlo umano. Oltre ai singoli dettagli cambiò il tono, avvicinandolo a quello dei suoi film e delle sue serie, capace di unire leggerezza, umorismo e sentimento. Questa serie di cambiamenti consentì al team creativo della Pixar, quello che negli anni successivi avrebbe creato tutti i film più noti e importanti dello studio, di rivedere interamente la storia, gli snodi narrativi e gli eventi, arrivando alla versione definitiva del film.

Whedon aveva inserito un giocattolo che poi non fu incluso nella versione definitiva: una Barbie che doveva salvare Woody e Buzz dal cattivo del film. Nelle storie di Whedon ci sono sempre personaggi femminili molto forti, risoluti e decisivi, e voleva inserirne uno anche in Toy Story. Mattel, la società che produce le Barbie, all’epoca però non volle concedere i diritti per usare il suo personaggio. Per loro era sbagliato far passare l’idea che la Barbie potesse avere un carattere unico, perché quella bambola ha tante incarnazioni ed è tante cose, non una sola. Anche grazie al successo di Toy Story e del suo sequel, la società poi accettò di far comparire Barbie e Ken in Toy Story 3, e anni dopo avrebbe fatto il noto film sulla sua bambola (in cui ne esistono tante versioni diverse).

Quando Toy Story uscì nel 1995 fu un grandissimo successo e incassò molto più del previsto. La Pixar ottenne così tanto potere da rivedere il contratto che aveva con la Disney (molto sbilanciato a favore della seconda) e si associò allo studio per gli anni successivi, potendo così contare sulla sua grande esperienza distributiva e di marketing. L’enorme successo della Pixar coincise con gli anni in cui la Disney ebbe una crisi di consenso e incassi, e nel 2006 la seconda comprò la prima. Come effetto dell’acquisizione John Lasseter, fondatore della Pixar e principale mente creativa di tutti i lungometraggi animati, divenne anche il capo della divisione animazione della Disney. L’idea dietro l’operazione non era solo di comprare una società di successo ma acquisire le conoscenze per migliorare i propri cartoni e farli un po’ più Pixar, operazione portata avanti negli ultimi vent’anni.

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