Come concetto, una band come i Cold in Berlin è una figata vera. Nella realtà anche, o forse anche meglio. Nati a Londra come gruppo post-punk/death-rock, di quelli che recuperiamo con piacere quando si festeggiano i morti. Questo prima di aver aperto il proprio suono a influenze gothic metal e doom. Una manna, insomma, se lo chiedete a me. Forse non sarebbero un vero e proprio gruppo metal, ma di sicuro non interessa particolarmente che loro ricadano o meno in questa definizione. Anche se Metal Archives li onora di una scheda tutta loro, la grammatica resta prevalentemente rock, per come si intende il rock dai ’90 in poi. Rock gotico, sicuro. Quella notte che ammanta un certo settore musicale, che comunque con il mainstream va (o potrebbe andare) a braccetto. Gli Smashing Pumpkins di Adore e Machina. Il Marilyn Manson di Mechanical Animals. La classe dei singoli componenti al servizio della sintesi degli A Perfect Circle. Oggi, Chelsea Wolfe, che in quelle atmosfere lì ci sguazza. La notte, quindi, è assicurata. Anche nel caso dei Cold in Berlin. Non è importantissimo quindi che rientrino o meno in certe categorie. Giusto?

Anche perché voler dissezionare un album come Wounds per comprendere scientificamente come incasellarlo ci farebbe magari deviare dal senso di un disco del genere, o meglio sensazione. Diafana come uno spettro e grave come una lapide. La luce, quella poca luce bianca, pallida, assume il ruolo di rafforzare le tenebre, per non permettere alle pupille di abituarsi al buio. Che quindi è nero, cupo per davvero. Lo osservi, affascinato, perché non sai cosa si nasconde là dietro. Magari qualcun altro che sta proprio guardando te. E per questo la grammatica rock e post-punk sono congeniali, perché danno forma a canzoni semplici e glaciali, in cui è un’idea forte, melodica, che sostiene il tutto, senza troppi artifici, senza manierismi stilistici. Con suoni moderni, alcuni sintetici, veicolati da esperienze elettroniche notturne di confine. Roba che mastico e ho masticato poco, ma i Fever Ray più o meno ce li ricordiamo, giusto? Un po’ quel mondo lì (sentire The Stranger, immaginifica). Non so quanti di voi abbiano confidenza con quel mondo lì, più della mia che è pochissima. Elettronica, post-punk, metal gotico, ma niente déjà-vu. Non particolarmente almeno. Maya Wittleton declama invasata come Siouxsie. No, come lo spettro disperato di Siouxsie. Come Sadako Yamamura, si arrampica fuori da un pozzo abissale, terribile ed innocente, e non ti molla. Non è “terribile”, canta bene, pulita. Giusto perché stiamo giocando con i paralleli con l’horror giapponese, a un certo punto (Messiah Crawling) si sente pure il rantolo gutturale di Ju-On.

Non è però rock in formato shock. Anzi, secco, ascetico, millenarista. Un po’ come quello dei Mansion, gran gruppo. Gran gruppo anche i Cold in Berlin. E questo un disco in cui qualcun altro potrebbe finire per rifugiarsi nel seguito dell’autunno, mentre le giornate continuano ad accorciarsi. Nove canzoni fredde, malinconia senza charme, non consolatoria. Nella prima parte dell’album non mancano i muri e i graffi sui muri. Un incipit tosto come Hangman’s Daughter. Un singolo ancora più apocalittico come 12 Crosses. Un gioco ancora più sfacciato di pieni e vuoti come quello della già citata Messiah Crawling. Poi i toni si calmano ma l’Abisso non va via mica. Fino alla fine. Fino a Wicked Wounds, in chiusura, una summa di tutto il discorso in chiave quasi riot. Una continuità convincente con trenta o quarant’anni di rock gotico più o meno duro. Senza revival. Merita, questo disco. Se volete emoglobina, pesantezza ed effetti speciali, forse no. Se avete familiarità con abisso ed introspezione, invece sì. E non c’è nulla da temere, in fondo. (Lorenzo Centini)