Di fronte alla morte procurata di due persone che hanno scelto il suicidio assistito, il cittadino, e tanto più il medico, si pone la domanda se la scelta carica di sofferenza non sia stata conseguenza del nostro modo di considerare la vecchiaia, senza rispetto, senza protezione, senza amarla come fenomeno umanissimo che ci accompagna con sempre maggiore frequenza, senza la fatica di esprimere calore, accompagnamento, consolazione. Si sono suicidate in questi giorni due persone che per molti anni, in un passato ormai lontano, ci hanno fatto amare la vita, un mondo spensierato, anche se forse già allora avremmo dovuto ipotizzare che l’attaccamento assoluto delle due gemelle Kessler tra di loro nascondeva una serenità condizionata.
Perché a 89 anni hanno scelto di morire? Una malattia grave in persone che consideravano il loro corpo una realtà perfetta, una depressione negata e non diagnosticata, semplicemente la perdita del desiderio di continuare a vivere in una comunità umana senza ricordo, senza gratitudine, che valuta solo il peso di dover accompagnare “due povere vecchie” sole, alle quali ovviamente non basta più la memoria di un passato luccicante? Si chiama “ageismo” l’atteggiamento collettivo, oggi ampiamente diffuso, che considera inutile e dispendioso garantire a tutte le età lo stesso livello di cura e di cure, di attenzione, la possibilità di vivere nel rispetto collettivo, con la valorizzazione del ruolo di ciascuno, anche se molto anziano. Non possiamo certo affermare che la scarsa attenzione sociale e la solitudine siano state le sole cause della richiesta di suicidio assistito. Peraltro, la volontà delle gemelle di essere sepolte insieme alla mamma e al loro cagnolino testimonia la speranza di ricevere almeno dopo la morte il calore che non ricevevano da vive. Una solitudine cupa e dolorosa. Forse il medico e gli accompagnatori nel momento della fine hanno permesso alle gemelle di andarsene sentendo vicina almeno la loro attenzione…
La società ageista è dominata dalla cultura della morte; cerca di negare la vecchiaia perché fonte di angoscia, perché l’immagine di un futuro senza speranza è insopportabile e quindi si ritiene che negando ogni impegno si nega il diritto alla vita, la stessa che si rifiuta per il proprio futuro. L’ageismo si esprime in molti modi nella nostra vita sociale, è nascosto in ogni momento della giornata della persona non più giovane, alla quale si negano diritti, ma prima ancora il rispetto nelle relazioni di tutti i giorni. La proposta, fatta recentemente, ma che spero mai diventerà operativa, di ritenere inutile il rinnovo della Carta di identità per chi ha compiuto 70 anni è la dimostrazione concreta di un vissuto sociale maligno verso le età avanzate. La Carta d’identità scaduta diventerà un simbolo: l’anziano non conta nulla, non è più pericoloso, appartiene ad una schiera indistinta, che non ha la necessità di essere caratterizzata singolarmente da un documento, perché è uguale a milioni di altri, che non hanno la possibilità di dire a nessuno il loro dolore e la loro solitudine. Ma come può una comunità accettare questa palese dimostrazione della perdita di identità personale dei propri anziani? Nessuno pensa che gli atteggiamenti ageistici provocano enormi danni alla convivenza e alla speranza per il futuro di tanti nostri concittadini? La vita non vale nulla. Le sorelle Kessler non hanno subito questa umiliazione, riservata a chi non esiste più (un collegamento tragico con le vicende dei vari “sans papier” che nel mondo di oggi si muovono tra un allontanamento e l’altro). Però, le Kessler hanno subito la solitudine dei riflettori spenti, al cui posto non si è nemmeno acceso il piccolo lume di una vicinanza, dell’ascolto, di una tenerezza. Ad un certo punto, forse, il legame gemellare ha richiesto l’aiuto di un altro affetto, di una comunità consapevole e attenta; ma apparentemente la ricerca è fallita. Non sappiamo quale fosse il loro atteggiamento verso la Fede. Siamo certi, però, che una società ageista è strutturalmente senza Fede, perché non crede nel dovere di supportare più deboli. Fortunatamente, anche in questa atmosfera dominante trovano spazio azioni di singoli e di gruppi che non accettano il dominio della morte, ma non tutti hanno la fortuna di incontrare compagni di viaggio che aiutano a cercare e a trovare la speranza.
Ad un medico la vicenda di questi giorni pone ulteriori dolorosi interrogativi. La medicina non può essere la soluzione di tutti i problemi sociali che sempre più pesano sulla nostra convivenza, ma non deve rinunciare al ruolo di porto sicuro, dove la sofferenza può trovare un ascolto e accoglienza. Non sempre siamo sicuri sul risultato dei nostri atti tecnici, ma sempre siamo certi di un “qui e ora” che garantisce relazione e accompagnamento attraverso il dolore, vissuto con particolare intensità quando colpisce persone fragili che da sole non sono più in grado di continuare la loro strada.