Collaboratrice cronaca ed eventi
20 novembre 2025 01:00
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Il fascino del Giappone difficilmente lascia indifferenti e questa volta meno che mai. Si intitola “Graphic Japan. Da Hokusai al Manga” la mostra che trova casa, da novembre 2025 ad aprile 2026, dentro alle sale del meraviglioso Museo Archeologico di Bologna. Un’esposizione intensa, rilassante, ricca di scoperte su un paese affascinante e pieno di storia e tradizioni. Da non perdere: il bookshop, per comprare il catalogo, le stampe, i libri e i tantissimi oggetti in vendita come i bento-box e i kimono. Tutti, chiaramente, a tema Sol Levante. QUI TUTTE LE INFO
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Viaggio nelle immagini: dalla magia dell’Edo alla grafica contemporanea
Per comprendere davvero la grafica giapponese contemporanea bisogna tornare alle sue radici più profonde, a quel terreno fertile che fu l’ukiyoe, la grande stagione delle stampe del periodo Edo (XVII–XIX secolo). È lì che nasce un nuovo sguardo, una sensibilità estetica capace di raccontare i piaceri della vita quotidiana, le mode, la natura e gli animali attraverso immagini vive, dinamiche, sorprendentemente moderne.
Tra i protagonisti di questa rivoluzione figurano maestri come Utagawa Hiroshige e Katsushika Hokusai, che con i loro paesaggi e le loro vedute hanno influenzato non solo l’arte giapponese ma l’intero immaginario occidentale. Accanto ai temi naturalistici, gli artisti dell’ukiyoe dedicano uno spazio speciale alla figura umana: le donne eleganti e raffinate ritratte da Kitagawa Utamaro e Kitagawa Tsukimaro, oppure gli attori del teatro kabuki fissati nelle celebri stampe di Utagawa Kunisada, Utagawa Kunimasa e Toshūsai Sharaku.
La trasformazione dell’immagine
Con la fine del periodo Edo e l’avvento dell’era Meiji (1868–1912), il Giappone vive un cambiamento epocale: cadono le strutture del sistema feudale e l’imperatore assume un nuovo ruolo centrale, guidando un processo di modernizzazione accelerata. Anche l’arte subisce una metamorfosi profonda. L’illustrazione (zuan) si avvicina all’industria e l’artista diventa zuanka, un designer ante litteram, pronto a dialogare con le esigenze di una società sempre più moderna, scientifica, industrializzata.
Il Novecento: nascita del graphic design giapponese
È però nel XX secolo che la grafica giapponese trova una voce del tutto nuova. Dagli anni Cinquanta, complice l’arrivo di materiali e tecnologie dagli Stati Uniti, prende forma una vera e propria identità visiva contemporanea. A guidare questa trasformazione è Kamekura Yūsaku (1915–1997), oggi riconosciuto come il padre della grafica giapponese e il primo graphic designer moderno del paese.
La sua presenza nella mostra Graphic ’55 segna un punto di svolta: per la prima volta compaiono poster stampati in offset accanto ai disegni preparatori eseguiti a mano, simbolo perfetto dell’incontro tra tradizione e tecnologia.
Attorno a Kamekura cresce una nuova generazione di designer destinata a lasciare il segno:
Kōno Takashi, Ōhashi Tadashi, Yamashiro Ryūichi, seguiti poi da figure ancora più iconiche come Nagai Kazumasa, Tanaka Ikkō, Matsunaga Shin e Yokoo Tadanori. Ognuno di loro rilegge la tradizione – soprattutto le scuole pittoriche Rinpa e ukiyoe – attraverso i linguaggi della comunicazione visiva contemporanea, creando manifesti audaci, poetici, profondamente innovativi.
Verso la contemporaneità: fotografia, digitale e nuove possibilità
Negli anni Settanta e Ottanta la grafica giapponese evolve nuovamente, influenzata prima dalla fotografia e poi dal computer. Le nuove tecniche di stampa digitale permettono effetti inediti: rilievi, opacità, immagini completamente costruite. Eppure, nonostante il salto tecnologico, resta intatto il legame con la tradizione: i colori, le luci, le forme e i soggetti continuano a richiamare quello spirito che affonda le radici nell’Edo.
Le sezioni della mostra: dagli animali alle maschere
Il percorso espositivo si articola in quattro grandi sezioni tematiche dedicate ai motivi di natura, ai volti e alle maschere, alla calligrafia e tipografia e al giapponismo contemporaneo. Oltre 250 opere tra stampe silografiche, libri, album, manifesti, mascherine per tessuti (katagami) e oggetti d’alto artigianato offrono una narrazione stratificata dell’evoluzione della grafica giapponese, in dialogo con diverse forme artistiche: dalla calligrafia alla tipografia, dal disegno al design, dalle arti applicate ai prodotti di alto artigianato fino alla moda, al cinema, al teatro e al fumetto.
La mostra si apre con la natura protagonista, rappresentata dai maestri dell’ukiyoe nelle stampe policrome e reinterpretata dai primi graphic designer nelle forme tridimensionali delle arti applicate, come kimono, tessuti, vasi e ceramiche. La natura è concepita come una costellazione di simboli, mentre il paesaggio diventa specchio del sentimento umano. I motivi stagionali – la luna, i pini, le gru, le onde increspate, il bambù, i fiori di ciliegio, gli aceri, le farfalle, gli insetti, gli scoiattoli – vengono sintetizzati in forme stilizzate e simboliche, riprodotte secondo le diverse destinazioni d’uso.
Segue la sezione dedicata ai volti e alle maschere, protagonisti nelle stampe di Utamaro, Sharaku, Kunisada e nei manifesti teatrali di Tanaka Ikkō e Yokoo Tadanori, che rivelano chiare connessioni con il cinema. L’impostazione scenica, l’espressività dei volti e il gioco tra luce e ombra, tipici di queste opere, hanno influenzato e contribuito a definire l’estetica cinematografica giapponese, da Yasujirō Ozu ad Akira Kurosawa fino all’animazione di Hayao Miyazaki. Molti graphic designer hanno collaborato con registi, studi di animazione, editori e stilisti, generando un’estetica condivisa tra generi e formati. Ne sono esempio la grafica di Tanaka Ikkō, che ha caratterizzato una linea di abiti e accessori di Issey Miyake, e la serie di poster dedicati a Sharaku, maestro ukiyoe specializzato nei ritratti degli attori kabuki.
Il percorso prosegue con le opere che esplorano il rapporto tra parola e immagine, tra spazio e vuoto, riflettendo l’eredità zen. Nella sezione dedicata alla calligrafia e alla tipografia, il tratto – da sempre gesto spirituale e disciplina estetica – si trasforma in griglia compositiva e struttura tipografica, diventando uno degli elementi fondanti della grafica moderna. Tracce di questa relazione tra segno e costruzione visiva emergono anche nelle pagine pop dei manga.
L’itinerario si conclude con il giapponismo contemporaneo, che indaga la trasposizione dei codici tradizionali nella cultura visiva globale. Manga, anime, design editoriale, pubblicità e fashion design sono ambiti in cui il Giappone ha saputo creare una sintesi originale tra memoria visiva e innovazione. Le opere mostrano come le radici estetiche giapponesi siano state integrate in un linguaggio globale, riconoscibile e allo stesso tempo adattabile, e come abbiano influenzato anche la grafica e la cartellonistica italiana di inizio Novecento, da Leopoldo Metlicovitz a Marcello Dudovich, in un periodo di intensi scambi artistici favoriti dalle esposizioni internazionali.
Le opere in prestito provengono da importanti istituzioni italiane e giapponesi, pubbliche e private, tra cui il Museo d’Arte Orientale “Edoardo Chiossone” di Genova, il Museo d’Arte Orientale di Venezia, diverse biblioteche civiche e nazionali e collezioni giapponesi come la Dai Nippon Foundation for Cultural Promotion e la Adachi Foundation.
Approfondimento: “Graphic Japan: tre momenti chiave del successo internazionale
L’ultimo decennio sembra aver decretato un nuovo giapponismo in Europa e forse, più ampiamente, nel mondo. Una nuova ondata che non si sostituisce a quella di fine Ottocento-inizio Novecento – che portò in Europa stampe policrome, paraventi, ventagli e kimono, ceramiche e lacche, trasformando la vita quotidiana e lo sguardo di nuovi appassionati amatori e professionisti dell’arte – ma che sembra invece essere l’eco di quel colorismo e dell’altrettanto potente impatto avuto in epoca contemporanea, a partire dagli anni Settanta, dai film di animazione giapponese mandati in onda quotidianamente dalle emittenti televisive italiane, europee e straniere più in generale. Generazioni cresciute introiettando a poco a poco quelle immagini coloratissime, quei personaggi umani, mostruosi e robotici appartenenti a mondi altri, a culture e ambientazioni lontane; quelle scritture illeggibili e misteriose che comparivano nei titoli di coda e alla fine di ogni puntata che oggi sappiamo riconoscere come caratteri cinesi, kanji, sillabari fonetici corsivi hiragana e katakana componenti la lingua giapponese, ma che allora semplicemente affascinavano l’occhio curioso di bambini e bambine. Siamo noi, oggi, gli adulti nostalgici di quel mondo, a essere divenuti appassionati lettori e fruitori di nuovi media e nuove storie che riempiono non più solo le tv ma anche le mensole di interi scomparti delle più grandi catene di librerie, dove manga in serie e romanzi giapponesi, tradotti in lingua straniera
come mai prima d’oggi, rappresentano la cassa di risonanza di una cultura visiva giapponese che continua senza interruzione ad affascinare il mondo, trovando nell’esportazione una risposta che è linfa vitale per il Giappone stesso.
Quello del Giappone è un fenomeno unico, perché oltre a questo effetto di massa visibile in campo letterario, visuale e culinario, si allarga a comprendere un pubblico più selettivo che trova nei prodotti di design grafico, come manifesti
pubblicitari e packaging, nel design industriale e artigianale fino anche alla moda, un tipo di proposta peculiare legata a forme, materiali, colori e motivi decorativi non riscontrabile altrove. Si pensi ai grandi marchi sbarcati in suolo europeo, comeMuji, Uniqlo, Issey Miyake, che sulla semplicità delle forme, la peculiarità del colore, la ricerca sui materiali hanno fondato il loro successo, rappresentando la novità e insieme anche la continuità con le forme del passato che forgia quel particolare gusto giapponese che il pubblico straniero si aspetta e ricerca. E proprio qui sta il segreto del fascino della cultura nipponica, in questo doppio binario che affonda le radici nei classici traendone costante ispirazione e citandoli, con la capacità però, allo stesso tempo, di trasformarli, modernizzarli, assimilando caratteri adatti a ciascun tempo, a ciascun pubblico.
Le radici di questo percorso vanno trovate in un processo creativo che sta alla base di tutta la produzione artistica giapponese, originariamente considerata come un unico grande linguaggio che non presupponeva alcuna separazione tra gli ambiti artistici, parte della formazione completa di un individuo. Pittura e calligrafia (shoga) sono sempre state identificate con un unico termine che le comprendeva entrambe come unica espressione, così come pittura e arti applicate e performative erano identificate con il termine geijutsu che identifica ancora oggi tutte le arti. La separazione tra belle arti bijutsu e arti applicate kōgei è una deviazione moderna di fine Ottocento importata dai modelli educativi occidentali, nella quale anche l’Italia ha giocato un ruolo chiave attraverso l’opera e l’insegnamento di artisti e grafici che vennero chiamati dal governo Meiji a dare il loro contributo proprio in questo campo. Un’adozione che ha dato vita a una sorta di scissione interna, anche in campo educativo scolastico e accademico, con un filone di stampo asiatico che guarda alla tradizione e ai modelli classici cinesi e giapponesi, e un altro che invece protende a Occidente, adottando materiali, tecniche e soggetti importati dalle culture europee. Rimane vero però un fatto, forse riconoscibile solo a chi entra più in profondità nel tessuto culturale ed estetico giapponese, cioè che il Giappone si muove su due livelli: uno più di superficie, rivolto all’esterno e quindi più omologato al pensiero occidentale, immediatamente riconoscibile al primo incontro culturale; l’altro più profondo e radicato nel pensiero
classico, che rimane fedele a una sensibilità tramandata nei secoli per il quale serve più tempo per capirne i meccanismi e le sfumature.
Tuttavia, è proprio questo secondo carattere a catturare inconsciamente l’attenzione del pubblico straniero, per quella parte misteriosa ed esotica che ancora trattiene, che non permette di spiegare bene le ragioni del fascino subito a
parole, lo si subisce e se ne rimane incantati… e basta. E in parte questo è dovuto al processo che sta dietro al pensiero e alla creazione di qualsiasi prodotto giapponese, prima ancora del suo risultato finale. Un processo che si basa sull’attenzione data al fare, alla creazione stessa, sulla cura estrema del dettaglio, anche il più minuto, sulla selezione accurata dei materiali, degli strumenti, sull’importanza data a ogni gesto che porta alla realizzazione finale, come se fosse la composizione di un puzzle che, pezzo dopo pezzo, a poco a poco si fa per accostamento, dal piccolo al grande e non viceversa, non per causa ed effetto ma per associazione.È questo ciò che percepiamo noi, e forse anche ciò che Van Gogh, Monet, Toulouse Lautrec e i tanti artisti europei impressionisti e post impressionisti percepirono di fronte alle stampe e ai dipinti giapponesi, come rivelano i loro scritti e ancor di più la scelta di lasciarsi contaminare da quella produzione arrivata in Europa nella seconda metà dell’Ottocento che portò a rinnovare le loro opere. Quello che i maestri giapponesi espri- mevano era un diverso approccio verso la realtà; un approccio che non partiva da percezioni universali per arrivare al particolare, come è tipico del pensiero occidentale, ma dalla capacità di cogliere scorci, presenze e figure minute del paesaggio urbano e della natura legati a specifici momenti stagionali, forse insignificanti in senso universale, ma pieni di dignità se scrutati e descritti con l’attenzione del quotidiano che li ha resi protagonisti delle composizioni ukiyoe.
La produzione di immagini del Mondo Fluttuante (ukiyoe) in piccolo formato, grazie all’adozione della tecnica a stampa da matrice in legno a partire dal Seicento, in epoca Edo segnò il momento chiave di passaggio verso la produzione moderna di immagini, permettendo la riproducibilità dell’immagine e la sua massima divulgazione sul mercato nazionale prima e internazionale poi. Quei soggetti, che già erano tramandati dai classici della letteratura e dalla poesia, trasposti pittoricamente su rotoli verticali, orizzontali e su paraventi, e di lì ancora su lacche, ceramiche e tessuti, con l’adozione della tecnica silografica, trovarono ulteriore rinforzo. Le im- magini, stampate prima in monocromia con il solo inchiostro nero e l’aggiunta di pochi colori a pennello (il rosso, il verde e il giallo), con l’evoluzione della tecnica e l’utilizzo di più matrici per ciascun colore, raggiunsero una policromia brillante e ricca al punto da essere paragonate al broccato di seta (nishikie) e aprirono alla possibilità di divulgazione di uno stesso soggetto in centinaia di esemplari così come nel formato del libro illustra- to. Se la matrice lignea rimaneva la stessa intagliata sul disegno preparatorio dell’artista, ciascuna stampa manteneva la sua unicità per via del lavoro manuale dello stampatore professionista che stendeva il colore. Un sistema che fa sì che un disegno originale di Hokusai, di Hiroshige, di Utamaro, e di qualunque altro maestro, una volta inciso sulla matrice lignea può essere replicato nei secoli fino a che quella matrice esiste, ma con la possibilità di cambiarne colori e gradazioni. Un processo portato avanti in epoca Meiji e ancora oggi da editori come Unsōdō a Kyoto e la Fondazione Adachi Hanga a Tokyo, sempre attivi nella riproduzione fedele di opere del passato con l’archivio di matrici sopravvissute, ma anche produttori attivi di nuove matrici e soggetti realizzati da maestri artisti e artigiani contemporanei.
La domanda di stampe ukiyoe tra Sette e Ottocento era tale che alcuni soggetti si affermarono come archetipi, richiesti dagli editori agli artisti che, in grande concorrenza, cercavano di rispondere interpretando secondo il proprio stile gli
stessi modelli: un uccellino abbinato a un ramoscello fiorito, coppie e stormi di gru in volo con il sole rosso nascente o sopra le onde, una coppia di germani reali o di anatre mandarine nel canneto lacustre, uno stormo di oche in volo o una coppia di conigli davanti alla luna piena, combinate di pesci, crostacei ed erbette, sono solo alcuni dei soggetti di natura che insieme alle vedute di paesaggi vennero seriali zati. Le Trentasei vedute del Fuji, le Cinquantatré stazioni del Tōkaidō, le Sessantanove stazioni del Kisokaidō, le Cento vedute di luoghi celebri di Edo fanno parte di questo mercato, così come ne fanno parte i ritratti di beltà femminili del ceto cittadino o più spesso affascinanti cortigiane delle case da tè dei quartieri di piacere, insieme alla loro controparte maschile rappresentata dagli attori di teatro
kabuki.
Per tanti di questi soggetti si prevedeva una serialità, come evidenziano anche i titoli, oltre che la riproducibilità delle singole immagini, per coprire una domanda crescente da parte di un ceto cittadino sempre più allargato e istruito grazie alla duratura pace garantita dal governo shogunale dei Tokugawa (1603-1868). La veloce urbanizzazione della capitale amministrativa di Edo, l’attuale Tokyo, accoglieva non solo samurai burocratizzati, ormai lontani dai campi di battaglia, ma soprattutto i nuovi arricchiti dal commercio e dalle attività produttive di intrattenimento e ricezione che potevano anche permettersi di godere di tutto questo e di indirizzarne i gusti.
I temi “fiori e uccelli” (kachō), importati dalla Cina attraverso manuali e rotoli e già parte della tradizione pittorica giapponese, pur ripetendo composizioni e abbinamenti, vennero declinati in formati diversi e con tratti più o meno
naturalistici a seconda dell’artista e della scuola che li trattava. Basti vedere la grande differenza di trattazione tra i due più importanti maestri dell’ukiyoe, Hiroshige e Hokusai: su questo stesso tema, l’uno con una pennellata più semplice e composizioni silenti e calme, l’al- tro drammatico, energico e realistico. Una differenza espressa, nel caso delle stampe policrome, anche nelle scelte coloristiche dei due maestri e nella diversa applicazione di bokashi degli stampatori che li affiancavano, ma che in generale finivano però per seguire tendenze e mode che si andavano affermando negli anni come la stampa col solo blu (aizurie), sintetica e allo stesso tempo intrigante che fece seguito alla popolarità del blu di Prussia (il Berurin blue) importato in Giappone dagli anni Trenta dell’Ottocento, sfruttato al meglio da Hokusai nel suo piccolo capolavoro della “Grande onda”, parte delle Trentasei vedute del monte Fuji.
Le pagine dei quindici volumi illustrati da Hokusai, che portano il titolo di Manga e che rappresentano il compendio del suo bagaglio grafico, testimoniano la base del processo grafico, mostrando da una parte i modelli condivisi, dall’altra la singolarità dell’artista che sapeva dar vita con veloci ed efficacissime pennellate a ogni singola linea per esprimere tutto lo scibile animato e inanimato di questo mondo e di mondi immaginari. Ciascuna pagina è riempita fittamente di minuti modelli pittorici trattati con il solo nero e pochi tocchi di vermiglio, con sintetiche vedute di paesaggi naturali in stagioni differenti, e poi tipi di montagne, pianure, mari e laghi, onde, cieli, rocce, alberi, piante, fiori, animali reali e mito- logici, uccelli, pesci, anfibi e rettili, variabili di agenti atmosferici, figu- re e tipi umani, mestieri, volti ed espressioni, architetture, armi, oggetti d’uso quotidiano e ancora e ancora: un campionario grafico fittissimo e ricchissimo messo a disposizione di artisti in erba e professionisti che di- mostrano, oltre che l’abilità artistica, anche la consapevolezza artistica ed educativa di Hokusai, confermata dai suoi volumi di modelli per artigiani con cui allargò la sua missione portando l’arte pittorica pura verso il di- segno a servizio della produzione di oggettistica; un’anticipazione di ciò che accadde successivamente in era Meiji, quando venne definito il ruolo dell’illustratore, zuanka, trasformatosi poi negli anni Cinquanta del Nove- cento in quello del graphic designer.
Questo è un altro punto fondamentale su cui si è voluto puntare l’attenzione per cercare di capire il successo grafico del Giappone. La trasmissione di modelli dalla letteratura alla pittura ha subito una trasformazione utilitaristica consapevole a fini produttivi artigianali e industriali durante gli anni Meiji ed è questo passaggio a essere chiave nel percorso di sviluppo grafico perché ha permesso poi, negli anni della rinascita del dopoguerra, l’affermazione repentina della grafica contemporanea nel formato del poster. Un passaggio concretamente e facilmente visualizzabile nelle mascherine di cartone usate come stencil (katagami)1(cat.30- 42), imbevute di succo di cachi per essere rese impermeabili e resistenti alle tinture tessili e finemente intagliate con gli stessi motivi decorativi di natura stilizzati derivati da libri di modelli e motivi decorativi, come potevano essere i manuali di Hokusai e altri artisti. Queste rappresentano l’ulteriore elemento necessario a spiegare il passaggio pratico e l’intima connessione tra pittura, disegno e la trasposizione funzionale di questo, prima sulle mascherine stesse, intagliate come matrici in questo caso di carta, poi attraverso l’applicazione del motivo su di esse intagliato su tessuti per kimono e haori. E tutto questo già in epoca Edo, prima ancora che si definisse il ruolo di zuanka che in era Meiji, divenne la figura di artista e disegnatore insieme adottata dagli editori per ideare campionari di motivi antichi (komon) e moderni che rispondessero alla moda attuale, inglobando anche le novità provenienti da fuori, da applicare in ogni ambito dell’artigianato e dell’industria. Questa evoluzione si ebbe a seguito della trasformazione tecnologica e industriale avviata internamente al Giappone a fine Ottocento per allinearsi con le potenze europee a cui si era riaperto dopo secoli di chiusura controllata; una trasformazione che prevedeva, tra le altre cose, la messa a servizio delle arti al sistema produttivo che trovò forma, appunto, nella pubblicazione di volumi di qualità pregiatissima che mantenevano la qualità della stampa silografica dell’ukiyoe, con l’aggiunta di nuovi colori e pigmenti adatti alla proposta di motivi decorativi derivati dalla semplificazione dei soggetti pittorici per renderli applicabili artigianalmente su tessuti, lacche, ceramiche, ventagli. Un esempio è la tradizionale lavorazione della lacca urushi di Wajima(cat. 100), portata avanti da esperti artigiani e artisti che ancora si rifanno a quei modelli classici per decorare in makie, con motivi a rilievo in oro, argento e pigmenti, bicchierini e coppette da sake come quelli con motivi di pesci e crostacei, porta tabacco come quello decorato con il Fuji squarciato dal fulmine, soggetto tratto dalle Trentasei vedute del monte Fuji di Hokusai, o come le coppette che riprendono due soggetti simbolo di buon auspicio e longevità quali le gru, in volo ad ali spiegate sopra le onde e con il collo rivolto alla terra pronto a calarsi sulla preda, e la tartaruga millenaria, con
la lunga coda di alghe attaccatesi al carapace negli anni. Si potrebbe dire che poco è cambiato in forma e composizione se paragoniamo questi prodotti alle tante lacche conservate nei musei orientali italiani di epoche passate, ed è questo
che di nuovo testimonia la parte più profonda della cultura grafica giapponese tramandata attraverso la sapienza artigianale in un legame stretto di continuo scambio tecnico con la pittura.
Se guardiamo ancora più indietro, in epoca Heian, nell’ambito della corte imperiale per mano femminile si sviluppò una tecnica pittorica detta tsukurie, che prevedeva la costruzione di una stratificazione di uno stesso pigmento per ottenere toni brillanti e campiture piatte, semplifi- cate. Questa tecnica, ripresa proprio dalla lavorazione della lacca, strato su strato, è esemplificata nel rotolo illustrato di Genji (derivato dal romanzo omonimo Genji monogatari), l’opera pittorica più significativa del XII secolo. A partire dall’epoca Momoyama, quando il potere militare si affermò anche attraverso spazi architettonici imponenti come castelli e palazzi, la scuola Kanō, distintasi a servizio di shōgun e di templi già dal Quattrocento, aveva sviluppato soggetti di natura su supporti di grande dimensione come porte scorrevoli (fumae), paraventi (byōbu) e rotoli da appendere (kakemono) creando dei paesaggi in cui sempre gli stessi elementi di piante, fiori e uccelli esprimevano il ciclo delle stagioni senza interruzione, semplicemente attraverso il susseguirsi di elementi naturali che richiamavano ciascuna stagione, assecondando lo stile dei pittori della grande scuola-famiglia.
Il pittore settecentesco Itō Jakuchū, considerato tra gli artisti eccentrici e originali del periodo Edo, esplorò le possibilità decorative dell’abbinata di “fiori e uccelli” in una serie di grandi rotoli che comprendevano tutto il mondo degli esseri viventi, reali e mitologici, attraverso una ricchezza e una varietà di colori e una descrizione naturalistica minuziosa dei particolari fino a far perdere l’occhio, riempiendo lo spazio senza far prevalere alcun elemento sugli altri. Un approccio lontanissimo dalla sinteticità decorativa della scuola Rimpa sistematizzata da Ogata Kōrin nel Settecento, che declinò il tema di natura “fiori e uccelli” tanto in pittura quanto nelle arti applicate, lacche, ceramiche e kimono, grazie all’esperienza derivatagli proprio dall’essere cresciuto in una famiglia di mercanti di tessuti di Kyoto. Uno degli esempi chiave è la stilizzazione del soggetto dell’iris, derivato da un episodio deiRacconti di Ise (Ise monogatari), resa attraverso campiture di colore piatto blu-viola lapislazzuli per i petali e verde malachite per foglie e gambo su fondo in foglia d’oro. Una composizione sintesi di un paesaggio che è stata ripresa da Kōrin su due coppie di paraventi a sei ante, ma poi anche su kimono, lacche, ceramiche e oggetti in metallo come le guardie di spada (tsuba) (cat.52), con una efficacia tale da aver ispirato in tempi recenti il graphic designer Tanaka Ikkō, che a sua volta lo ha elevato a soggetto grafico puro, sintetizzandolo prima in un suo poster attraverso forme squadrate geometrizzate, poi su un murales realizzato dentro l’aeroporto di Narita attraverso forme più flessuose e arrotondate. E il processo virtuoso è andato oltre, perché chi ha saputo leggere il potenziale di questa operazio- ne grafica di Tanaka Ikkō è stato il più grande stilista giapponese, Issey Miyake, che ha creato una linea grafica per i suoi abiti in collaborazione con l’amico, trasponendo alcuni soggetti dei poster di Tanaka, tra cui l’iris, ma anche altri fiori, il Fuji, calligrafie, maschere di teatro nō e kabuki, su abiti, soprabiti, giacche haori, e persino borse e calzature. La sintesi grafica pittorica della scuola Rimpa, già di per sé derivata dall’esperienza di decorazione tessile che permetteva, proprio grazie alla semplificazione assoluta, la ripresa di motivi decorativi su qualsiasi materiale e supporto, ha trovato espressione, ancor più che nel colorismo delle stampe Edo, in epoca contemporanea, nella singolare collaborazione dei due giganti Tanaka e Issei in cui design, grafica, moda e le tecnologie più avanzate in termini di ricerca in ambito tessile si sono fuse creando una serie di capi difficilmente ripetibili.
Gli anni Cinquanta del Novecento segnano la seconda tappa fondamentale per la definizione del Giappone contemporaneo e del volto grafico che oggi gli riconosciamo, rappresentato da una parte dai manifesti dei grandi designer che riprendono motivi iconici e colorismo dai classici per trasformarli in messaggi efficaci di comunicazione sociale, dall’altra dall’enorme produzione di manga (cat. 72, 117, 141, 210) in serie, per ogni genere, età, gusto, ma in continuità con quella immediatezza e capacità di sintesi di grafica e tipografia a cui le stampe ukiyoe ci hanno già educati nell’evoluzione delle loro composizioni e dei loro formati. Il dopoguerra in questo senso segna un momento di grande rottura e insieme di rinascita per il Giappone devastato dalla distruzione del Secondo conflitto mondiale con un bombardamento che aveva raso al suolo tutto il territorio, ben oltre le due città di Hiroshima e Nagasaki come si tenderebbe a pensare, sotto le due bombe atomiche sganciate nell’agosto del 1945.
L’occupazione americana da una parte segnò a lungo la censura su tutto quello che riguardava le conseguenze atroci del conflitto, dall’altra portò una ventata di leggerezza, colore e nuova linfa vitale per le menti creative. Sono proprio i designer di quella prima generazione a descrivere la gioia ritrovata nel packaging di scatole e lattine delle razioni di cibo dei soldati americani e nelle tante immagini che ritraevano divi del cinema e pin up in locandine, copertine e pagine di carta uso mano di riviste pulp titolate con nuovi font e colori brillanti. Questi materiali divennero la prima fonte d’ispirazione per una rinascita artistica giapponese contemporanea a tutto tondo; da qui scaturirono le riviste kasutori giapponesi e le prime storie manga, oltre che la prima grafica d’artista spinta da Kamekura Yūsaku che importò il termine graphic design in Giappone e lanciò, con la prima mostra di manifesti Graphic ’55 ai grandi magazzini Takashimaya di Tokyo, la prima generazione di graphic designer tra cui Hara Hiromu, Kōno Takashi (padre di Aoi Huber Kōno e suocero di Max Huber), Itō Kenji, Hayakawa Yoshio, Ōhashi Tadashi, Yamashiro Ryūichi.
Tutte le arti subirono un’accelerata e in questo senso non si può non evidenziare la spinta data da tre nomi divenuti portanti e considerati come tre fratelli per il legame d’amicizia e professionale che li univa, che scaturì in una riscrittura della storia dell’arte giapponese contemporanea: Kamekura Yūsaku nell’ambito del design grafico, Domon Ken nell’ambito fotografico, Teshigahara Sōfu nell’ikebana e nella calligrafia. Quest’ultimo li fece diventare un unico linguaggio artistico sotto la linea Sōgetsu che comprendeva grandi performance calligrafiche live e installazioni ambientali che utilizzavano materiali di riciclo come legno, metallo, pezzi di macchine, oltre a sassi, bambù, piante, incrociando le sperimentazioni dei movimenti d’avanguardia Gutai, informale e dell’arte povera. Alla mostra del ‘55 seguirono altri eventi-chiave dal punto di vista degli sviluppi nell’ambito del design grafico che rilanciarono l’immagine del Paese verso l’estero e affermarono la generazione seguente di grafici tra cui Nagai Kazumasa, Tanaka Ikkō, Matsunaga Shin, Yokoo Tadanori, Tanami Keiichi, solo per citarne alcuni: la World Design Conference nel 1960, i giochi Olimpici di Tokyo nel 1964, l’Expo di Osaka nel 1970. La partecipazione di Teshigahara Sōfu nel 1959 alla “Mostra internazionale di pittura e di scultura Arte Nuova. Ikebana di Sofu Teshigahara” al Circolo degli Artisti di Torino2 è la testimonianza di quanto la sua apertura verso l’estero sia stata di rottura con la tradizione entrando in un network che contava, tra gli altri, Carla Accardi, Karel Appel, Franco As- setto, Alberto Burri, Giuseppe Capogrossi, Antonio Carena, Willem De Kooning, Domoto Hsiao, Lucio Fontana, Franco Garelli, Imai Toshimitsu, Jackson Pollock, Ennio Morlocchi, Shiraga Kazuo, Tanaka Atsuko, Antoni Tapies, Mark Tobey, Emilio Vedova. Teshigahara aveva conosciuto il critico Michel Tapié, trasferitosi a Torino, a Osaka proprio nel 1957. Fu lui a invitarlo a Torino per allestire nel museo un giardino monumentale con tronchi e cortecce dal titolo “Felicitazioni”, inaugurato il 14 luglio 1960. Contemporaneamente alla mostra del Circolo degli Artisti, alla galleria Notizie di Torino, Tapié con Luciano Pistoi, dedicò una mostra al gruppo Gutai, mentre nel 1962 alla Promotrice di Belle Arti si tenne il seguito della mostra del Circolo “L’incontro di Torino. Pittori di America, Europa e Giappone”, e alla Galleria Civica d’Arte Moderna la mostra “Strutture e Stile. Pitture e sculture di 42 artisti d’Europa, America e Giappone”, realizzata in collaborazione con l’International Center for Aesthetic Research (ICAR), fondato due anni prima da Tapié con all’architetto Luigi Moretti e diretto da Ada Minola3.
Teshigahara aveva aperto all’ikebana la strada verso l’Europa, frequentando le capitali europee e riportando a casa il respiro internazionale dei movimenti europei. La calligrafia usciva dalla scuola tradizionale accademica e la tracciatura di grandi caratteri in inchiostro, che già era parte della tradizione Zen, seppur con scopi diversi, portò sempre più a una sintesi pittorica-calligrafica adottata anche nel design grafico attraverso la collaborazione tra calligrafo e grafico. Una rivoluzione per la calligrafia che ebbe riverberi importanti su tutta la grafica successiva come dimostrano i poster di Tanaka Ikkō che giocano su kanji tipografici e calligrafici, il manifesto di Koichi con l’ensō Zen e il carattere MU 無di nulla che lo squarcia (cat. 219); i caratteri RA らe Re れin hiragana che si incrociano (cat. 214), o quello di in 隠 “nascondere” dietro i fili d’erba (cat. 213), entrambi poster di Hosoya Gan, o la pioggia di caratteri calligrafici nei manifesti di Matsunaga Nihon sake (cat. 82, 83). Capolavoro tipografico che sintetizza il potenziale visivo dei caratteri cinesi kanji, realizzato nel 1955, è il poster di Yamashiro Ryūichi che traccia la forma di un bosco mescolando i caratteri di albero木, bosco 林e foresta 森giocando proprio sul paesaggio intrinseco in ciascun kanji (cat. 215).
E anche se tutto ciò può sembrare lontano dal mondo delle vignette dei manga contemporanei, si può dire si tratti solo di un differente sviluppo di questo stesso potenziale grafico giocato sulla variabilità della scrittura, fonetica e ideografica, e la sua fusione con l’immagine – Rossella Menegazzo, curatrice della mostra
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