Sorprende sempre la vivacità e il dinamismo culturale del Kossovo dove ancora si percepisce forte l’onda reattiva e creativa che segue ogni guerra. A Pristina si può scoprire un interessante festival tutto al femminile, Femart, (settima edizione che si è tenuta dal 10 al 16 giugno) che coniuga in maniera esemplare arte e attivismo, e soprattutto accorda in un equilibrio singolare radicalità e profondità degli orizzonti teorici con dolcezza e leggerezza dei comportamenti.

Un festival nato dalla necessità artistica di incontrare la comunità e le comunità, condividendo sogni e paure, in particolare sul tema dei diritti umani e delle donne. Qui non ci sono flussi turistici da attrarre, non si avverte il bisogno di creare il grande evento ma contano le relazioni tra le persone, tra gli artisti, la collaborazione, il networking, l’amicizia, la solidarietà, conta che la gente si senta e stia bene, per provare a sanare le ferite ancora aperte di una guerra mai dimenticata con le tante violenze e i tanti traumi.

È stata la direttrice artistica e regista Zana Hoxha a creare dapprima Artpolis-Centro d’Arte e Comunità e poi il festival, mettendo al centro del programma il tema della salute mentale sul quale si sono confrontati 200 artisti e attivisti provenienti da 10 nazioni diverse (Inghilterra, Austria, Albania, Usa, Ucraina, Serbia, Francia, Italia, Lussemburgo, Kosovo) attraverso talk, workshop, conferenze, film, performance che declinavano l’argomento nelle più profonde articolazioni: «L’arte come strumento di cura: come l’arte può curare la società», «Arte+mente: cura, salute mentale, burnout nella resistenza creativa», «Artivismo: creare arte per il cambiamento», «Maternità e salute mentale: rivendicare le nostre narrazioni».

«L’argomento della salute mentale in Kossovo – dice Zana Hoxha- è quasi un tabù, se ne parla in circoli ristretti ma noi vogliamo de-stigmatizzarlo attraverso l’arte e vogliamo capire quali sono le conseguenze del problema sulle persone, sulle comunità artistiche, sulle istituzioni».

E non poteva esserci testo più adatto de Le troiane di Euripide per portare l’attenzione del pubblico su vecchie e nuove guerre. L’adattamento di Shpetim Selmani e la regia di Maja Matic e Zana Hoxha fanno dialogare i performer nelle due lingue ancora ostili, l’albanese e il serbo, propongono impercettibili salti di tempo e spazio fra Troia e Gaza in una fusione ben riuscita di passato e presente con immagini e parole che fissano nella memoria stupri, torture, umiliazioni sui corpi delle donne.

«Noi non vogliamo la guerra, non l’abbiamo mai voluta, la verità è che qui non c’è una pace sostenibile- racconta Zana Hoxha visibilmente scossa dalla fresca notizia sul conflitto tra Israele e Iran- Siamo un giovane Stato indipendente, non abbiamo un esercito, c’è la Nato che dovrebbe difenderci in caso di aggressione ma ora l’urgenza è quella dei diritti umani. Abbiamo persino problemi con gli sponsor del festival, si rifiutano di sostenerci perché teniamo gli after party in un locale frequentato da gay».

Molto apprezzata la performance I Am Her con Tringa Hasani e Semira Latifi, scritto da Valmira Thaqi e Dituri Neziraj: maternità e depressione post partum sono strettamente connesse con le aspettative sociali sulle donne, sulle cui vite pesa la minaccia di un coltello che divide e lacera sentimenti e desideri. Ad iniettare il giusto equilibrio sentimentale fra le proprie radici e nuovi approdi esistenziali sono arrivate le suggestive sonorità del Post Immigrant Pop di Shkodra Elektronike (vedi Alias del 7 giugno 2025) cui si è aggiunta la trascinante empatia della giovane compagnia Maestrale Teatro con Qualcosa di grande.

Shqipe Malushi, attivista e femminista, l’animatrice del festival

Protagonista e animatrice del festival Femart è stata Shqipe Malushi alla quale abbiamo rivolto alcune domande. Shqipe Malushi è una poetessa, scrittrice, performer, speaker, consulente di genere e fondatrice di Global Visionary Minds, un’iniziativa dedicata a rafforzare individui e comunità attraverso la narrazione, la leadership e l’amore. Nata in Kosovo, ha trasformato il suo viaggio da immigrata negli Stati Uniti in una missione globale. Ha lavorato in Afghanistan, India, Libano, Iraq, Albania e negli Stati Uniti, al fianco delle donne, dei giovani e delle comunità vulnerabili, per ispirare cambiamenti, costruire pace e restituire speranza. Ha ricevuto il Women of Excellence Award, l’Iconic Women’s Leadership Award e la Medaglia per il Mantenimento della Pace della NATO. Con la forza della sua voce e della sua visione, Shqipe continua ad accendere i cuori e risvegliare agenti di cambiamento in ogni angolo del mondo.

Sei un’attivista femminista della prima ora. Quando e come è emerso questo tuo bisogno di occuparti della condizione delle donne?

Avevo solo tre anni quando mio padre morì, lasciando mia madre vedova a 24 anni, senza istruzione, senza reddito, con tre figli piccoli, in una casa affollata con nove familiari, mia nonna era la matriarca. Compresi, da bambina, che le donne non avevano alcun diritto. Mia madre non aveva voce, né proprietà, né libertà. Ma non si arrese. Riuscì col tempo, a laurearsi, trovò un lavoro, comprò una casa per noi e ci mandò a scuola. Guardandola, capii che essere femminista significava essere istruita, indipendente economicamente e consapevole dei propri diritti. Ho seguito il suo cammino, custodito la saggezza di mia nonna e non ho mai negoziato la mia libertà.

Hai lavorato in tanti contesti di guerra come Afghanistan, Kosovo, Albania…

Essendo nata in Kosovo, la lotta per la libertà faceva parte della mia identità. A New York partecipavo attivamente alle manifestazioni per l’indipendenza del Kosovo. Ero direttrice esecutiva dell’Organizzazione delle Donne Albanesi «Motrat Qiriazi», sostenevo rifugiate e immigrate con programmi di educazione, inclusione e appartenenza culturale.

Durante la guerra in Kosovo, volai in Albania per offrire aiuti umanitari e documentare le storie delle donne rifugiate. Anni dopo, nel 2006, una chiamata inaspettata da un’amica mi portò in Afghanistan per una formazione di tre settimane. Quel viaggio è durato dieci anni. A volte è la missione a trovare noi.

Perché e in che modo le guerre colpiscono le donne più duramente?

La guerra è la forza più crudele contro le donne. Distrugge la dignità, spezza la famiglia, ruba il futuro dei figli. Instilla paura e riduce la donna alla sopravvivenza, cancellando ogni speranza. In guerra, la donna diventa invisibile, senza voce, senza scelta, costretta a subire una violenza che non ha scelto. Eppure, incredibilmente, sopravvive.

Quali letture ed esperienze ti hanno influenzata di più?

Martin Luther King, Malcolm X e Gandhi, l’anima poetica di Rumi, la saggezza di Khalil Gibran, il coraggio di Maya Angelou e Alice Walker, e la profondità dei classici russi e mondiali hanno plasmato il mio pensiero. Ma sono state le persone reali a insegnarmi di più. Lavorare con le comunità in diversi continenti ha aperto il mio cuore, rafforzato il mio scopo e accresciuto la mia fiducia nella resilienza umana. Ho visto la trasformazione nei luoghi più bui.

Conosci bene la società americana. Come spieghi la politica di Trump?

Trump è un uomo d’affari, un intrattenitore, un maestro della scena. Ha capito che in America il potere segue la ricchezza e ha venduto un sogno: un’America bianca, ricca e «pura». Molti ci hanno creduto perché desideravano un salvatore. In un Paese dove anche Dio può essere comprato e venduto, lui è diventato il loro prescelto.

Ma l’America si sta svegliando. Le pulizie etniche non sono così semplici. Le persone iniziano a interrogarsi, a resistere. Trump gioca a fare Dio senza conseguenze. per ora. La vera domanda è: la paura è così grande che nessuno osa sfidarlo?

Quali nuove sfide pone oggi la società per l’emancipazione delle donne?

Le sfide sembrano nuove, ma le radici sono antiche. I diritti delle donne sono ancora scritti dagli uomini, senza ascoltarle davvero. In America, sono gli uomini a decidere sui corpi femminili, sulla maternità, sull’accesso all’istruzione e al lavoro. Le donne guadagnano meno, subiscono discriminazioni legate all’età, e portano un triplice peso: lavorare, curare, dimostrare sempre il proprio valore. Il mondo resta patriarcale, ma noi continuiamo a rialzarci.