Ci sono canzoni che andrebbero lasciate in pace. Quello che le donne non dicono è una di queste: una fotografia precisa del 1987, con le sue ambiguità, la sua normalità, le sue frasi sospese. Negli ultimi anni Fiorella Mannoia ne ha modificato il finale nei concerti, ma alle ATP Finals quel “sì” trasformato in “no”, poi in “forse”, è diventato un gesto pubblico enorme che non è passato inosservato. Il problema non è il verso cambiato. A stridere è l’idea che il passato vada ritoccato per risultare moralmente presentabile al presente. L’hanno già detto e ridetto in tanti ma nei consueti nove punti di questo blog, anch’io voglio dire la mia.
Cominciamo!
1. Il gesto
Alle ATP Finals la Mannoia ha riproposto il finale che già modifica da anni, ma stavolta lo ha fatto davanti a un’arena globale. Quel “sì” diventato “no”, poi “forse”, non è più un’interpretazione: è un segnale. Il passaggio da scelta artistica a dichiarazione identitaria è netto. Non stai più cantando quella canzone: la stai correggendo per allinearti al clima del momento. Ai miei occhi è appartenenza esibita.
2. Il dettaglio che esplode
Sì, quel finale lo canta così da anni. E potrebbe anche starci, se non restasse comunque uno sbaglio. Cambiare il senso di un brano non è un vezzo da palco: è un intervento sul testo. Alle ATP Finals lo stesso gesto smette di essere dettaglio e diventa caso. Perché interviene Enrico Ruggeri, l’autore, a dire che quella modifica è una forzatura. E quando parla l’autore, la “libertà interpretativa” mostra il suo volto: quello della distorsione.
3. La chirurgia estetica sul passato
Quello che sta accadendo non è un aggiornamento: per me è chirurgia estetica sul passato. Si prende una canzone del 1987 e la si ritocca come fosse un volto da ringiovanire, togliendo le rughe dell’ambiguità, per farla aderire al presente. Una bella fiala di botox culturale (e politico), punturata sulle bocche dei soliti noti. E stavolta l’intervento è toccato a Fiorella.
4. La tentazione di correggere tutto
In un gesto così piccolo vedo la volontà di correggere presunti gap culturali: come se bastasse una parola riscritta per indirizzare la percezione collettiva. È l’idea che la cultura vada guidata, addomesticata, resa spendibile anche politicamente. Ma funziona al contrario: più ritocchi il passato, più riveli la paura del presente. È il presente che ha bisogno di rassicurazioni. Non il 1987.
5. Il ruolo dell’autore
E poi c’è Ruggeri, l’uomo che quel testo l’ha scritto. Dice apertamente che quel cambio è una forzatura, che sposta il senso, che non rispetta l’idea originale. Una canzone non nasce per educare, ma per raccontare; e quel testo raccontava proprio ciò che doveva, con le sue ingenuità e le sue attese. La sua presunta “banalità” è un abbaglio: era costruita così, apposta. E paradossalmente, tutta questa storia serve solo a ricordarlo.
6. Immuni da ogni critica
Molti artisti, un tempo incendiari, oggi si muovono come pompieri. Spengono, moderano, rettificano. Parlano dai loro pulpiti social distribuendo verità prefabbricate su pace, guerra, memoria, diritti. E la produzione artistica? Imbarazzante: canzoni oscene, sagomate sugli stessi contenuti social che dovrebbero giustificarle. E sono sempre loro, gli artisti, a convincersi di stare dalla parte giusta, perfettamente allineati, immuni da ogni critica. Ieri incendiavano. Oggi controllano che il fuoco resti spento.
7. L’illusione della parte giusta
C’è un vizio sottile, ma devastante: la certezza di essere dalla parte giusta. Un’illusione comoda, che trasforma ogni gesto in un atto morale, ogni modifica in un “servizio”. Così molti artisti non cantano più: spiegano. Non interpretano: correggono. Tutto per mantenere la posizione, per restare allineati al sentimento dominante. È questa la vera povertà del presente. E so che vorreste sapere i nomi di questi artisti. Ma non ve li dirò: dovreste già saperli.
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8. La canzone e il suo tempo
Quello che le donne non dicono è figlia del 1987, di un’Italia sbilenca e contraddittoria. Un’epoca che non aveva paura di mostrarsi per quella che era, senza filtri morali applicati dopo. Quel testo funziona perché porta con sé ingenuità, stonature, normalità. Racconta un tempo, non lo giustifica. Toccarlo oggi a mio avviso significa una sola cosa: moralizzarlo. Il passato va compreso, non rifatto.
9. Il presente che si racconta da solo
Alla fine non c’entra più nemmeno Fiorella, né quel “no” infilato in un verso del 1987. Qui parla il presente: un presente che non sa fare i conti con sé stesso e allora tenta di piegare ciò che è stato, per farlo combaciare con quello che siamo diventati. Quel “no” non cambia la canzone: cambia noi, la nostra mania di sentirci “giusti”. Il passato resta dov’è, solido. È il presente a traballare. E la cosa più ridicola è questa: non è il 1987 ad avere bisogno di un ritocco.
Siamo noi.
Come sempre, chiudo con una connessione musicale: una playlist dedicata, disponibile gratuitamente sul mio canale Spotify (link qui sotto). Se vuoi dire la tua, fallo nei commenti — o, meglio ancora, sulla mia pagina Facebook pubblica, dove questo blog vive davvero. Lì il dibattito continua, si contorce, deraglia…e a volte sorprende.
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9 canzoni 9… senza ritocchi
