C’è un nuovo film dei fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne in sala. E non è di certo tra i più memorabili. La comunità dei cinefili europei ci perdonerà, ma dopo trent’anni di visioni, tra cui tutti i titoli dei maestri belgi, qualche distinzione andrà pur fatta. Giovani Madri non vale mezza Rosetta o mezzo Il figlio, ma nemmeno mezzo Tori e Lokita. Mettiamo subito in chiaro cosa non funziona: la logica dell’accumulo di storie, di linee narrative intersecabili, non è tra i pregi dei Dardenne, anzi. Se la peculiarità del loro cinema è la pressione di sguardo in semi-soggettiva, scavo totale su una figura centrale, un perno attorno al quale brulicano poche e precise figure di contorno, quando si dà pari importanza drammaturgica ad almeno cinque co-protagoniste e una marea di facce secondarie l’approccio stilistico salta per aria. O meglio: si svuota di energia e di senso. Capita.

Giovani madri fin dal titolo spiega come al centro dell’osservazione pressante dei Dardenne siano cinque adolescenti con neonato (una è incinta e sta per partorire) che vivono in una maison maternelle di Liegi, una casa rifugio pubblica dove le giovani possano sopravvivere degnamente vista la mancanza di rapporti con i genitori e pure spesso con i propri partner adolescenti. Così Giovani madri e un’illustrazione corale (sì, si tratta di coro, anche se le singole tessere del mosaico si prendono cinque-sei minuti di spazio ogni volta in solitaria) di una terribile situazione di crisi psicologica, sociale, economica legata alla maternità precoce. Un disorientamento di fronte alla vita che bussa anticipando in modo violento la crescita e la maturità, in questo caso femminile. I Dardenne ci provano a far stare dentro tutte e tutto. A far pulsare il disagio e la lotta per sopravvivere, a far scorrere il dolore sempre dentro una logica stilistica comunque iperpresente e nient’affatto contemplativa. È il loro marchio di fabbrica. Solo che in Giovani Madri l’abbondare di vicissitudini al limite, alquanto sovrapponibili, crea traballanti apnee performative (non tutte la attrici non professioniste o alle prime armi sono talentuose come la povera Emilie Dequenne), alcuni incredibili scivoloni esplicativi con la parola (il soliloquio di Perla/Lucie Laruelle che deve farci capire che quella di fronte è la sorella cattiva è estenuante) e una sensazione di sostanziale inconcludenza progettuale.

Un ultimo appunto per gli under 30 che vedendo Giovani Madri vedono per la prima volta un film dei Dardenne. Ecco, sarebbe come approcciarsi a un Rossellini partendo da Il Generale Della Rovere o a Chaplin da La contessa di Hong Kong. Inspiegabile, davvero inspiegabile, il motivo per il quale Giovani Madri abbia vinto il premio alla miglior sceneggiatura di Cannes 2025, l’anello oltretutto più debole di un film già di per sé sbagliato.