Un po’ come il suo Commissario Ricciardi, ogni lunedì su Rai1, anche Lino Guanciale, che gli dà il volto, si porta dietro un fantasma del passato: il suo è «il giudizio degli altri», una presenza costante. Eppure, quando davvero ha dovuto scegliere per la sua vita, Lino Guanciale lo ha messo a tacere e ha ascoltato solo la sua volontà: nato in una famiglia di professionisti dalla carriera «solida» – padre medico e madre insegnante -, pur avendo superato il test per entrare a Medicina, non si è iscritto all’Università. «Per mio padre è stata una delusione fortissima», racconta al Corriere.

I suoi genitori «all’inizio erano disperati ma poi sono stati molto determinati a starmi vicino. Di fronte alla mia decisione così ferma hanno fatto l’unica scelta veramente sensata: sono stati sempre presenti, non si sono mai persi uno spettacolo».

Da bambino, però, la carriera che sognava era un’altra ancora: «Da piccolo in realtà volevo fare il benzinaio: mi piaceva molto l’odore della benzina e poi vedevo quei portafogli gonfi di soldi che mi facevano immaginare grandi ricchezze».

La «vocazione» arriva dopo: «A 19 anni invece ho calato la maschera e scelto di fare l’attore. Per la prima volta in palcoscenico mi sono sentito libero di essere quello che sono».

Oggi il suo Commissario Ricciardi continua ad affascinare il pubblico, e secondo Lino Guanciale le ragioni sono due: «Da un lato proprio la genialità dell’invenzione di Maurizio De Giovanni che ha creato, oltre al protagonista, un mondo avvincente di personaggi fortissimi. Dall’altro c’è il fascino di un’epoca molto calda nella nostra memoria storica. Siamo negli anni ‘30, in pieno fascismo, nel momento in cui l’asse con Berlino si perfeziona: c’è l’attrazione per qualcosa che abbiamo rimosso, per la stagione più oscura della nostra storia».

E Ricciardi è un antieroe silenzioso, fuori dagli schemi. Lino Guanciale, però, non ci si identifica poi così tanto: «Di base sono una persona timida, ma le mie analogie con Ricciardi, purtroppo, finiscono qui. Mi piacerebbe somigliare il più possibile a un personaggio come lui».

Torniamo ai fantasmi, e a quello che sempre lo tormenta: «Il giudizio degli altri. E fare questo lavoro paradossalmente mi ha aiutato molto ad affrontarlo: è stato ed è tuttora terapeutico per me». Ma «non si guarisce mai né da quello né dall’ansia. Al massimo uno può imparare a gestirle nella maniera più sana e saggia possibile».

Nel suo percorso c’è anche To Rome with Love. Un’esperienza particolare con Woody Allen: «Diciamocelo francamente, non è uno dei suoi film più belli. Mi sembrava piuttosto interessato a farsi una bella vacanza a Roma: chiedeva sempre consigli su dove si mangiava la miglior cacio e pepe in città. Le ha provate tutte».