Ci sono momenti in cui il mondo smette di ascoltare, e allora resta solo la tua voce, fragile e ostinata, a chiedere la verità. E’ su questa triste e intensa premessa che si fonda questo film drammatico su Netflix, che ti porta accanto a una madre che sfida l’oscurità, che graffia il silenzio delle istituzioni per ritrovare la figlia scomparsa.E mentre segui il suo cammino, senti che la sua battaglia potrebbe essere quella di chiunque abbia amato senza ricevere risposte.

Diretto da Liz Garbus, si intitola “Lost Girls”, una pellicola del 2020 distribuita direttamente in streaming su Netflix dopo la presentazione al Sundance Film Festival, che affronta una delle pagine più inquietanti della cronaca americana recente: i delitti del Long Island Serial Killer e l’indifferenza che circondò la scomparsa di molte giovani donne vittime di sfruttamento.

Tratto dal libro di Robert Kolker, il film non cerca il sensazionalismo, ma la dimensione più intima e dolorosa della storia: la lotta di una madre contro un sistema che preferisce distogliere lo sguardo. La protagonista è Amy Ryan (apprezzata anche in “Gone baby Gone“), straordinaria nel ruolo di Mari Gilbert, una donna che vive ai margini, alle prese con difficoltà economiche e familiari.

Quando sua figlia Shannan, interpretata da Thomasin McKenzie (che avevamo visto anche in “Il potere del cane“), svanisce dopo una misteriosa chiamata al 911, la polizia liquida il caso come una “ragazza problematica” scappata di casa. È qui che nasce il cuore del film: l’indignazione di una madre di fronte a un’ingiustizia che si fa più grande di lei.

Mari non si lascia intimidire dal pregiudizio che avvolge la figura della figlia, né dal muro di gomma eretto dalle autorità. Con la sua ostinazione trascina l’opinione pubblica, costringe la polizia a indagare davvero, riporta la vicenda sotto i riflettori.

Ed è proprio grazie al suo instancabile lavoro che vengono scoperti diversi corpi lungo Gilgo Beach, aprendo un caso che scuoterà l’America per anni. La regia di Garbus, già nota per il suo lavoro nel documentario sociale, costruisce un’atmosfera cupa, tesa, mai voyeuristica.

La storia non indulge nella morbosità del true crime: piuttosto, mette a fuoco le contraddizioni di una comunità, di un sistema che non protegge chi considera marginale, e di un dolore che si fa leva per smascherare le omissioni.

In questo film tratto da una storia vera, non troverai colpi di scena hollywoodiani né risposte nette, perché il caso reale è tuttora avvolto da zone d’ombra. La narrazione fa della mancanza di risoluzione un punto di forza, trasformando l’assenza in racconto, il silenzio in denuncia.

Amy Ryan dà vita a una protagonista dura, spigolosa, imperfetta ma profondamente vera: una madre che combatte anche quando non sa più se potrà vincere. Accanto a lei spiccano Thomasin McKenzie, in un ruolo breve ma decisivo, e Gabriel Byrne, che interpreta il detective in bilico tra colpevolezza morale e impotenza istituzionale.

Tiepidamente accolto dal web: 45% il gradimento su Google, 72% su Rotten Tomatoes e 6,2/10 su IMDb, questo drammatico su Netflix è comunque un film che scava nella tua emotività ma senza manipolarla, riportando al centro non il mostro, ma le vite spezzate e dimenticate.

Un’opera che denuncia il peso dei pregiudizi, la vulnerabilità delle vittime e la forza incrollabile di chi non accetta di lasciarle svanire nell’oblio. Un racconto cupo ma necessario, che ricorda che dietro ogni titolo di cronaca c’è sempre qualcuno che aspetta giustizia.