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Per molti anni la galleria d’arte Eltiqa di Gaza è stata un posto molto frequentato. Ci andavano artisti emergenti, per fare pratica e imparare insieme agli altri artisti del collettivo, ma anche persone interessate alle mostre e ai vari eventi che venivano organizzati lì. Mohammed Al-Hawajri, uno dei fondatori del collettivo, ricorda diverse serate piene di musica e gente, dai primi anni Duemila in avanti.
Oggi quel locale, che si trovava nel centro della città, è stato praticamente distrutto. I missili israeliani l’hanno colpito a dicembre del 2023, in uno dei moltissimi bombardamenti compiuti durante la recente invasione della Striscia. Eppure, non tutte le opere del collettivo – che si chiama Eltiqa: “incontro” in arabo – sono andate perdute.

La galleria del collettivo Eltiqa nella città di Gaza distrutta dai missili israeliani (foto di Mohammed Al-Hawajri)
Al-Hawajri e Dina Mattar, sua moglie, sono riusciti a salvarne parecchie, prima di lasciare la Striscia insieme ai loro quattro figli. Lo hanno fatto tornando più volte a Gaza, nonostante i bombardamenti continui, e recuperando con enormi rischi le opere ancora integre da quello che rimaneva della galleria. Alcune di queste oggi sono esposte in una mostra in corso a Brescia, inaugurata due settimane fa, con gli artisti presenti. Molte altre sono ora conservate negli Emirati Arabi Uniti, dove Al-Hawajri e Dina Mattar si sono trasferiti.
Al-Hawajri è nato nel 1976 nel campo profughi Bureij, nel centro della Striscia. Da ragazzo ha imparato a dipingere da autodidatta, frequentando anche vari corsi d’arte visiva a Gaza, dove si incontrava spesso con altri artisti. Racconta che fu Fathi Arafat, medico e fratello di Yasser Arafat (a lungo capo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina), a offrire loro il primo spazio per dipingere: un locale dentro la sede della Mezzaluna Rossa (il corrispettivo locale della Croce Rossa), di cui per anni Fathi Arafat era stato presidente. «Fu in quel periodo che nacque l’idea di fondare Eltiqa», dice Al-Hawajri.
Era il 2000, e allora dentro la Striscia non esisteva qualcosa di simile a una galleria d’arte indipendente. L’idea dei sei fondatori era di aprire un luogo che fosse dedicato sia alla pratica delle arti visive sia alla formazione di nuove generazioni di artisti. Mattar, che è del 1985 e si era laureata in Belle Arti all’università Al-Aqsa di Gaza, si unì al gruppo fondatore pochi anni dopo. Poi nel 2006 lei e Al-Hawajri si sposarono.
Nel frattempo gli artisti di Eltiqa erano riusciti ad affittare una vecchia casa, in cui ricavarono la loro galleria. Si trovava in una delle vie centrali della città di Gaza, intitolata a Omar Al-Mukhtar, il più famoso eroe della resistenza libica anti-italiana. La galleria era vicinissima all’ospedale Shifa, un tempo il più grande della Striscia, e ripetutamente attaccato dall’esercito israeliano negli ultimi anni.
L’apertura di uno spazio tutto loro non esaurì gli ostacoli di un progetto del genere. «L’accesso ai materiali per dipingere non era garantito. Spesso ci aiutavano alcuni diplomatici francesi, diventati amici nostri, che compravano quello che ci serviva a Gerusalemme o a Ramallah [in Cisgiordania] e ce lo portavano di nascosto», dice Al-Hawajri. Recuperare il materiale per dipingere infatti è sempre stato complicato. Nel 2007, dopo la nascita del governo autoritario di Hamas, Israele impose un rigido embargo sulla Striscia. Di fatto da quell’anno fu bloccato l’ingresso di molti materiali civili, oltre che di beni di prima necessità.
Spesso, quindi, per le loro opere gli artisti del collettivo Eltiqa hanno dovuto arrangiarsi con quello che trovavano attorno a loro. I colori li fabbricavano con le spezie, mentre le tele erano ricavate da tessuti riciclati. A queste difficoltà molto concrete si aggiunge il fatto che Hamas è sempre stato perlopiù ostile a forme d’arte non strettamente religiose.

Dina Mattar e Mohammed Al-Hawajri al Museo Santa Giulia di Brescia, 11 novembre 2025 (Laura Fasani/il Post)
La vita quotidiana nella Striscia è uno dei soggetti principali nelle opere di Al-Hawajri e Mattar, che attingono molto dalle loro storie familiari e dal paesaggio circostante, nel suo aspetto antecedente al 7 ottobre 2023, prima che Israele lo distruggesse.
Pur essendo ideate, realizzate e mostrate dentro la Striscia di Gaza, negli anni diverse delle loro opere sono state portate fuori da diplomatici solidali col collettivo, poi esposte e a volte acquistate da compratori internazionali. «La maggior parte dei nostri lavori ha viaggiato senza di noi», commenta Mattar, ricordando implicitamente le difficoltà enormi degli abitanti di Gaza nell’ottenere un permesso da Israele per uscire dalla Striscia. Lei e Al-Hawajri sono riusciti comunque ad avere dei permessi per partecipare a residenze artistiche, a Parigi e nel 2022 in Germania, a documenta fifteen, una delle principali esposizioni internazionali di arte contemporanea.
Sara Alberani, curatrice della mostra a Brescia (che si intitola Material for an Exhibition), spiega che Al-Hawajri e Mattar hanno formato una generazione di artisti di Gaza, molti dei quali oggi vivono in Francia. Loro però erano rimasti nella Striscia: poi ci fu l’attentato terroristico del 7 ottobre, e la successiva invasione israeliana.
Come la stragrande maggioranza delle persone palestinesi dentro la Striscia, anche Al-Hawajri e Mattar lasciarono la loro casa dopo il 7 ottobre 2023. Per un periodo si stabilirono a casa di una sorella di Mattar, finché anche quella zona venne bombardata. In quell’occasione furono uccise sedici persone della loro famiglia. Come molti altri si spinsero poi verso Rafah, nel sud della Striscia, al confine con l’Egitto.
Nel dicembre del 2023 la galleria di Eltiqa venne bombardata. Nessuno sa dire esattamente quando successe: gli artisti lo scoprirono solo alcuni mesi dopo, perché nessuno di loro era più tornato a Gaza. A un certo punto fu Ahmed, figlio maggiore di Al-Hawajri e Mattar, a insistere affinché provassero a recuperare alcune opere dalle macerie. «Siamo andati e tornati da Rafah a Gaza per tre volte: una abbiamo rischiato di brutto la nostra vita, perché quel giorno le bombe hanno colpito le case attorno alla galleria. Ci siamo salvati, ma è stata veramente una cosa pazza», raccontano.

Mohammed Al-Hawajri con alcune opere portate a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza (foto data al Post)
Calcolano di aver portato a Rafah circa 250 tele, che hanno tenuto in tenda con loro e i loro figli. Il 2 aprile del 2024 hanno lasciato la Striscia passando dal varco di Rafah: «Pagammo cinquemila dollari a persona per uscire», dicono, trentamila in tutto (non specificano a chi, perché dicono che potrebbe compromettere la loro possibilità di entrare in alcuni paesi).
A marzo del 2023 Al-Hawajri aveva ottenuto dagli Emirati Arabi Uniti un visto che permette di risiedere nel paese per un massimo di dieci anni, e che viene concesso solo ad alcune categorie di persone, tra cui quelle altamente specializzate in qualche campo e dai meriti riconosciuti. Da allora vivono a Sharja, la terza città più popolosa degli Emirati: è lì che custodiscono le opere recuperate dalla galleria di Gaza. Gli altri membri di Eltiqa abitano ancora nella Striscia.
Al-Hawajri dice che la guerra e la tragedia attorno a sé gli hanno impedito di dipingere per mesi. Mattar, invece, ha dipinto ogni giorno: «Mi ha spinto la tristezza. Dipingere è stato un modo di fuggire dal presente». L’opera più grande tra quelle esposte al Museo Santa Giulia di Brescia, una tela larga cinque metri e alta due che si intitola Our burdens are on our journey, Mattar l’ha dipinta in quaranta giorni, lavorando prevalentemente di notte nella camera da letto della sua casa a Sharja.