di Leonardo Botta

A mio avviso il consigliere di Mattarella, Francesco Saverio Garofani, farebbe bene a dimettersi, soprattutto per tutelare il Quirinale. Credo che un collaboratore del presidente della Repubblica dovrebbe astenersi da qualsiasi esternazione in pubblico che lasci anche minimamente trasparire il proprio orientamento politico (che in realtà nel caso di Garofani è noto, essendo lui ex parlamentare del Partito Democratico), anche se pronunciata in “chiacchiere da bar” con amici.

Soprattutto, le sue dimissioni sono necessarie per disinnescare le armi dei cecchini governativi puntate contro il Presidente. Guardate per esempio questo titolo sui canali social de La Verità, quotidiano che ha avuto il merito di ricevere e pubblicare la notizia della cena in cui Garofani si sarebbe lasciato andare a quelle dichiarazioni in libertà, titolo che recita: “Perché non può stare un minuto di più lì”. Un lettore distratto potrebbe pensare che il giornale di Belpietro si riferisca a Mattarella; in realtà no, nel titolo si lancia il sasso ma poi nel corpo dell’articolo si nasconde la mano, chiarendo che chi non può stare un minuto di più al suo posto è Garofani.

Beninteso, anche un’istituzione come il Colle, oggi retta da un giurista che ha mostrato in questi dieci anni equilibrio e sobrietà, può essere oggetto di critiche, anche feroci, per suoi comportamenti che eventualmente non rispettino il mandato costituzionale. Del resto i partiti di sinistra non lesinarono, in passato, strali contro Leone o Cossiga, quelli di destra contro Scalfaro e Napolitano e, più recentemente, leghisti e grillini chiedevano addirittura l’impeachment per lo stesso Mattarella.


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Ma fa specie che a guardare la pagliuzza nell’occhio del Presidente siano coloro a cui sono sfuggite le travi in quello di qualcun altro. Per esempio di La Russa, la seconda carica dello Stato: quello che conserva il busto di Mussolini in casa e che ama riscrivere la storia della lotta partigiana. O di Silvio Berlusconi, sulle cui “marachelle” da imprenditore e premier si potrebbe scrivere l’enciclopedia Treccani, già candidato del centro-destra alla presidenza della Repubblica e a cui, quale premio di consolazione, sono stati dedicati nientemeno che un aeroporto e un francobollo.

Del resto pare evidente, e non inaspettato, che sia partito l’attacco da destra alla diligenza quirinalizia: per una serie di sfortunate circostanze il centro-destra non è mai riuscito a esprimere l’inquilino del Colle; al massimo ne ha condiviso la scelta, come nel caso dell’elezione di Carlo Azeglio Ciampi. Per cui questa volta per lo schieramento conservatore pare davvero la volta buona: la prossima a varcare la soglia del Quirinale potrebbe essere addirittura Giorgia Meloni, a sistema costituzionale vigente, o qualcun altro espressione dell’attuale maggioranza se dovesse essere riconfermata alle elezioni politiche del 2027 e, nel frattempo, dovesse passare la riforma sul premierato.

Per cui, fossi nei panni dei collaboratori di Mattarella (finanche dei corazzieri e del barbiere) starei attento a non emettere anche una sola sillaba fuori posto: da qui al 2029 le truppe d’assalto melonian-salviniane non perderanno occasione per cogliere in fallo il presidente o il suo entourage, lavorando ai fianchi un’opinione pubblica che notoriamente è facilmente impressionabile da titoli a effetto, post, tweet e reel.


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Del resto, è in nome dell’arcaico motto “tanti nemici, tanto onore” che il centro-destra, di nemici, se ne inventa uno al giorno: aveva cominciato Berlusconi con giudici e magistrati (da lui definiti “metastasi” – tranne, naturalmente, quelli che riusciva a corrompere per comprarsi le sentenze); poi avevano seguitato i suoi alleati ed eredi piazzando nel mirino l’Unione Europea (un po’ meno da quando Giorgia Meloni è diventata “tazza e cucchiaio” con la von der Leyen) e le Corti internazionali, passando per i sindacati e qualunque disgraziato che salga su un barchino per raggiungere le nostre coste.

Ora pare sia il turno di Mattarella.

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